Editoriali

EDITORIALE

Italiani a Malindi, come cambia il "mal d'Africa"

Il sentimento legato a questa terra si è trasformato negli anni

02-10-2019 di Freddie del Curatolo

Stato emozionale o luogo comune, infatuazione superficiale o filosofia profonda, il cosiddetto "mal d'Africa" da sempre viene associato ai luoghi più incantevoli e suggestivi del Kenya, anche se questa "saudade" del Continente Nero ha radici storiche diverse e ha riguardato negli anni anche gli italiani in Eritrea e in Somalia e anche i francesi nell'Africa occidentale.
Quando si parla di turisti e di Kenya (e la nostra pagina chiamata appunto "Mal d'Africa" porta molte testimonianze in merito) il "mal d'Africa" divide nei commenti: c'è chi lo considera come gli innamoramenti adolescenziali, tutto istinto e niente ragione, lontano dai veri motivi per cui poi si decide di vivere e/o di amare queste lande e la loro gente, e chi invece lo benedice perché è uno stato che semplicemente fa bene all'anima e rende felici.
Oggi però, nell'era tecnologica in cui alle emozioni reali si preferiscono i "like" virtuali, anche il "mal d'Africa" di chi frequenta in particolare Malindi e dintorni (vale a dire il grosso degli italiani in Kenya) ha perso il suo valore. 
Negli anni Settanta il Kenya era soprattutto sinonimo di avventura: basti pensare che per metà decennio era ancora aperta la caccia grossa in savana, che per raggiungere due terzi del Paese si dovevano percorrere piste poco più che cammellabili o districarsi in fitte foreste.
Parliamo di cinquant’anni fa, epoca che possiamo datare come l’inizio del turismo organizzato con destinazione Nairobi, per i safari, e Mombasa, per mare e comunque safari.
Chi sognava le spiagge tropicali, le isole di Robinson Crusoe e la vacanza al caldo d’inverno, era ancora affezionato a Caraibi, Seychelles e Mauritius, mentre si faceva largo il mito delle Maldive.
Il Kenya era indubbiamente per amanti della natura e del “wild”.
Ma all’inizio degli anni Ottanta ha cominciato a prendere piede la teoria del “mal d’Africa”, della sensazione di libertà, di abbandono totale dal progresso e dalla vita sempre più frenetica dell’Europa. La costa del Kenya, con il clima piacevole, i ritmi lenti, la gente ospitale timida e sorridente, hanno attratto sempre più persone, da Germania, Svizzera e Austria prima, poi anche dall’Italia.
Sono sorti in pochi anni hotel e ristoranti, sulle rive dell’Oceano Indiano è nata un’industria turistica che fino ad allora era quasi esclusivamente a vantaggio di inglesi e americani amanti della pesca d’altura o di ex coloni britannici in pensione.
Ecco che il “mal d’Africa” inizia a legarsi al turismo e il boom edilizio che ne consegue affianca il romanticismo e l’avventura al business.
Nell’Italia delle prime televendite immobiliari  e delle villette a schiera nelle periferie verdi delle metropoli, qualcuno già sparge la voce che con pochi milioni di lire si può acquistare un terreno sul mare a otto ore di volo da casa. Oltre all’abbronzatura invernale, all’emozione del safari e al fascino esotico del Continente Nero, nell’ottimismo della crescita globale, l’idea dell’investimento in un paradiso (anche fiscale) alimenta l’afflato.
Tanto che per molti il “mal d’Africa” diventa una condizione permanente, con trasferimenti definitivi, se non vere e proprie fughe dal proprio Paese.
“E senza grandi disturbi, qualcuno sparirà...saranno forse i troppo furbi e i cretini d’ogni età”, canta in quegli anni Lucio Dalla.
Malindi da questo punto di vista si erge a destinazione principe, superando le più vacanziere Diani e Nyali e la fricchettona Lamu, mentre Watamu è ancora sconosciuta ai più.
Chi arriva in vacanza con i primi viaggi organizzati al Bouganvillage, al Jambo e al Coconut, primi villaggi veri e propri, con animazione, sport e compagnia bella, ha la possibilità di integrarsi con connazionali che hanno fatto una scelta di vita e fatalmente qualcuno prenderà coraggio e li imiterà.
Da allora il “mal d’Africa” è anche sinonimo di esilio, una condizione naturale dell’emigrato sulla costa del Kenya. Chi apre un’agenzia di safari e scopre angoli di savana mai praticati prima dal turismo organizzato, chi una trattoria e gode ad abbinare lo spaghetto al dente ai crostacei locali che costano come una scatoletta di tonno in Italia, chi s’inventa mestieri e si prende fette di mercato che ancora non esistono in un Kenya in costruzione.
Ecco che con gli anni Novanta, il “malind’Africa” non è più solo una condizione di avventurieri, viaggiatori e fuggiaschi, ma diventa un modo di fare comunità alternativa, di crearsi una seconda ipotesi di vita e anche di portare altrove un po’ di denaro "in nero" mentre in Italia dilaga Tangentopoli.
Dalle ville di corallo sul bagnasciuga di Silversand si passa in poco tempo agli appartamenti nei residence e alle multiproprietà.
L’Africa selvaggia dopo vent’anni si sta già trasformando in qualcosa di più simile alle Canarie. Ormai gli hotel si sono moltiplicati, ce n’è per tutti i gusti e per tutte le tasche.
L’aura di Malindi e del Kenya italiano raggiunge una certa notorietà ed il suo successo si lega inevitabilmente ai vip che la frequentano, ai pericoli dati dalla vicina Somalia ed ogni altro fatto di cronaca. Il mal d’Africa a questo punto è anche mondano, tanto che all’inizio del nuovo Millennio c’è chi fa le valigie e torna in Europa (tanti giovani che hanno dato per conclusa una meravigliosa esperienza e forse anche un po’ la vita spensierata) e c’è chi si sposta in un Kenya più Kenya o sceglie la “civiltà”, scommettendo sullo sviluppo di Nairobi.
Chi rimane invece è felice di invecchiare in un luogo che è ormai diventato la sua seconda Patria e con il passare degli anni il “mal d’Africa” assume quella connotazione di nostalgia, relax e serena accettazione propri della terza età.
Ecco quindi proliferare un altro genere di turismo, quello dei pensionati e di chi acquista casa (dopo la crisi di inizio Anni Dieci più affitti che acquisti) a Malindi e Watamu. Diminuiscono i locali notturni, aumentano le farmacie, meno ristoranti e più supermercati, meno prostituzione, più badanti.
Il senso originario del “mal d’Africa” si è ormai perso, dopo aver cambiato troppe volte i connotati. Ora da sentimento è diventato un servizio.
Per metterlo in discussione basta uno scalo aereo di qualche ora in più, una strada dissestata, l’interruzione della fornitura d’acqua.
Difficile convincere questo genere di frequentatori del Kenya che i colori del cielo sono più importanti delle pillole per la pressione e che una giornata in un villaggio dell’entroterra può insegnare più di cento passate in un ufficio qualunque in Italia. Impossibile far innamorare chi non si ricorda più cos’è l’amore.  Ma il “mal d’Africa” non lo abbiamo inventato noi, era lì da prima ad aspettarci ed è l’emanazione di questo luogo. Ritornerà, per l’ennesima volta sotto altre forme. E se non sarà un fenomeno di massa, significa che forse è meglio così.

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