Reportage

REPORTAGE

Il matto di Gede che vive in una bottiglia

"Difu Simo", appunti da un tour necessario in Kenya

12-08-2020 di Freddie del Curatolo

Piove sul bagnato a Gede, lontano dalle rovine visitate dai turisti (quando ce ne sono) e ai bordi della trafficata strada per Mombasa.
Altro che tamerici salmastre ed arse di dannunziana memoria, qui il vento innesca una bufera tuttaltro che romantica ed abbassa la temperatura e penetra nelle ossa con la sua umida cattiveria di stagione. Le vestigia leggere qui sono la regola. C’è chi si può permettere un maglione di acrilico infeltrito, un giaccone rattoppato o, alla peggio, due strati di magliette e una camicia di finta flanella.
Attratti non troppo misteriosamente da canzoni scritte apposta per la loro salvezza, arrivano i protagonisti del nostro carrozzone viaggiante.
I matti sono due. Il primo ha una felpa con cappuccio.
L’altro, le cui paturnie sono meno evidenti, indossa un eskimo verde da militante del partito comunista jugoslavo negli anni Settanta.
L’incappucciato mi viene incontro, incurante del temporale.
Ha imparato da qualcuno che ci si saluta con il gomito e ci prova gusto.
Un saluto, uno ancora.
Sorride e mostra pochi denti, ma in compenso tutti cariati.
Eppure c’è qualcosa di molto vivo in lui, perfino di intelligente.
Sembra un coloured americano, uscito da un film di Spike Lee o da una canzone di Gil Scott Heron, quando raccontava dell’uomo che viveva in una bottiglia.
Lui vive ovunque, anche nella bottiglia d’orzata in cui oggi galleggia il villaggione di Gede, sotto un cielo così grigio che sembra anche lui più Detroit che Swahili Coast.
Si dirige sotto il palco improvvisato del colonnato dell’emporio di fronte alla pompa di benzina dove è stato sistemato lo stage del “Difu Simo Tour” e si produce in una serie di tic e smorfie che ti aspetti prima o poi sfoci in un’azione inconsulta, in una pazzia da camicia di forza.
Invece improvvisamente si calma, si fa accendere una sigaretta e accetta l’invito della dottoressa Nancy Kiptemoi a parlare.
No, anzi, non vuole parlare.
E’ un attimo.
Prende il microfono e inizia a rappare, scandendo le parole con inflessione americana, ripetendo strofe non sue ma che gli calzano a pennello e soprattutto che ricorda a memoria e scioglie a tempo.
Vorrebbe parlarti di sè, ma non sa più chi è da un pezzo e non se lo ricorda.
Si ricorda solo le parole di quel rap e come ci si saluta da qualche mese a questa parte.
La dottoressa riprende a parlare di bipolarismo, di “kifafa” (l’epilessia) ed altre patologie che non appartengono di sicuro al regno di Satana, ma solo alle infinite combinazioni mentali del genere umano e vengono peggiorate dall’abbandono e dalla stigmatizzazione.
Alcune madri annuiscono, hanno casi di questo tipo nel loro villaggio e non sono abituate a parlarne in pubblico, così chiedono udienza privata.
Mama Margaret, la maga erbalista dei MADCA, traduce dal giriama al swahili e dallo "psichiatrese" all'ancestrale.
La pioggia insiste e rende lo spettacolo di balli e canzoni molto difficile da portare avanti: la cantante reggae Dorothy Shukrani, nome d’arte Doty Shooks, se ne frega e sotto l’acqua intona un brano che invita i genitori a portare all’ospedale i loro figli che sembrano stranini.
Non costa niente e nessuno vi dirà mai che sono posseduti dal demonio.
Riparati sotto le tettoie di lamiera dei chioschi delle bibite e di un fruttivendolo, i giovani di Gede muovono i piedi fradici e infangati e sorridono.
Chissà se il messaggio gli sta arrivando, chissà se hanno assimilato le parole della dottoressa Nancy.
Di sicuro il vecchio che chiede il microfono per metterli in guardia dal potenziale effetto dei troppi spinelli invitandoli a bere vino di palma “che non ha mai fatto male a nessuno” li ha fatti ridere.
Domani sarà un giorno di sole a Gede e come sempre sulla riva di argilla che costeggia il lungo torrente d’asfalto si affacceranno centinaia di camion tuonanti, decine di motociclette ronzanti e di tuk-tuk scorreggianti. Forse ci sarà anche qualcuno che dirà che i disabili mentali non si devono tenere in catene o denutrire come creature maledette.
E che anche da queste parti, come a Detroit, i geni spesso vivono in una bottiglia.

TAGS: difu simoreportage kenyadisabili kenyamadca

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