Reportage

REPORTAGE

Lamu, paradiso keniota senza tempo

Viaggio nell'isola che rischia di scomparire

22-02-2012 di Freddie del Curatolo

L’arma più pericolosa rintracciabile sulla terra, quella più subdola, violenta, silente e inesorabile, è senza dubbio la mano dell’uomo. 
E’ l’unica capace di cancellare in pochissimo tempo millenni di storia, di usi e costumi, di pace e dominio della Natura, di abitudini ancestrali che forgiano caratteri, che penetrano addirittura nel cuore e nell’anima di intere generazioni.
L’unica che uccide e distrugge mentre stringe una sua simile, mentre firma un pezzo di carta, mentre volteggia in aria per disegnare parole misurate, bonarie, apparentemente sagge.
Così la mano dell’uomo seppellirà anche l’arcipelago di Lamu. 
Lo visitarono i cinesi, prima dell’anno mille, lo rispettarono gli indonesiani che insegnarono ai pescatori a costruire i trimarani e i dhow. Non lo stravolsero né gli arabi, né gli indiani. Non le dispute tra sultani, né i portoghesi. Non lo convertirono i tedeschi e non lo colonizzarono gli inglesi. 
L’indipendenza del Kenya, a Lamu, fu un fatto marginale. Era come tornare in possesso di un albergo di cui in realtà si aveva sempre avuto la gestione. 
Quel che non hanno fatto popoli guerrieri o conquistatori, scaltri mercanti e schiavisti, missionari o esploratori, riusciranno a compierlo i politici del terzo millennio. 
Quelli cresciuti nella cieca e sorda adorazione del dio denaro e con le spalle coperte dalle multinazionali, quelli che dietro la parola “democrazia”, sviluppano, in maniera avida e cialtrona, la solita oligarchia che in Africa vuol dire tenere un popolo sotto la soglia della povertà, calibrando il pane quotidiano d’ignoranza e malattie e un po’ d’oppio di progresso.
Lamu spesso viene definita la “Venezia islamica dell’Oceano Indiano”, il “Paradiso arabo in Kenya”. 
Ha il fascino delle cose immutate, del salto indietro nel tempo. Il fascino che nessun racconto e nessun film potrà tenere vivo, perché nei film non si accarezzano gli asini che se ne vanno liberi per i vicoli, non si dribblano le loro cacche che sono un secondo pavimento, non si viene salutati continuamente da vecchi e bambini, non si gira di notte per una casbah buia e stretta senza il minimo sentore di pericolo, non ci si abitua ai miasmi delle fogne a cielo aperto, non si rischia il gusto inimitabile di una samosa nei chioschi per strada. 
Nei film però ci si perde nel sogno da mille e una notte dell’elegante quartiere di Shela, tra guest house da sceicchi e la villa di Carolina di Monaco, viottoli dal fondo levigato come toilette e un ordine in giro che avrebbe stupito persino quel precisetti di Maometto.
Nel film c’è il deserto di Manda Beach, che fino a qualche mese fa era la spiaggia dei vip, tra resort a cinque stelle e ville senza nemmeno un’inferriata.
Prima che una banda di pirati neanche troppo addestrati si portasse via una residente francese malata terminale a cui nella vita mancava solo di morire da eroina e per giunta senza morfina. 
Ma non è la pirateria ad uccidere Lamu, che vive di pesca, d’esportazione di crostacei, del suo ecosistema, di viaggiatori e villeggianti vip e della cultura islamica. 
Saranno le mani che hanno firmato gli accordi per la costruzione del nuovo porto ad annientare mille anni di storia, a cancellare la parola turismo dal bagnasciuga e dalla barriera corallina, a scrivere freddi numeri con l’inchiostro ricavato dalle raffinerie di greggio, a trasformare i dhow in petroliere? 
LAPSET. 
Così si chiamerà il porto. Significa “Lamu Port Sud Sudan Ethiopia”. Sarà lo sfogo sul mare di due stati i cui governanti si apprestano a diventare ricchi, affamati e potenti come i loro alleati. 
LAPSET, sembra un rossetto, un semplice makeup per un Paese che si specchia nell’egoismo internazionale sventolando il suo Pil in crescita e altre cazzate simili. La verità è che c’è dietro la costruzione di un oleodotto che collegherà il nuovo stato staccatosi dal Sudan del dittatore Bashir, pieno di petrolio, con il mare e che permetterà anche all’Etiopia di non dover pagare fior di tasse all’hub di Port Sudan. Ecco perché Francia e Stati Uniti appoggiano la guerra contro le frange estremiste arabe di Al Shabaab in Somalia, ecco perché per la prima volta tutti i politici somali in esilio si trovano d’accordo con quest’azione contro quel che resta del loro paese. Ecco perché c’è bisogno della pace.
Il petrolio tira ancora parecchio, più della vendita di armi. L’accordo per il porto è già stato firmato, a Juba dai tre ministri dello sviluppo.
Sorgerà nella zona est di Lamu, dietro l’attuale porto d’attracco per chi arriva dalla terraferma e viene trasportato sulle isole.
I lavori sono già cominciati, le acquisizioni di terreni di chi vive lì da secoli, anche. 
Venerdì prossimo, 2 marzo, i Presidenti dei tre stati e i Ministri saranno a Lamu per il via ufficiale ai lavori. 
Cosa si può fare allo stato attuale per salvare il salvabile dell’arcipelago, paradiso protetto (per quel che conta) dall’Unesco? 
Malindiikenya.net è andata a Lamu per parlare con la gente, le associazioni, i politici, gli imprenditori, gli ambientalisti, per cercare di capire. 

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TAGS: Lamu portoLamu ambientalistiLeni Frau

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