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Quindici anni di Kenya

"Vorrei fare qualcosa per tornare indietro"

03-11-2014 di Andrea Coppola

Africa… 1999.
Non è una riminiscenza futuristica di tipo stellare, ma semplicemente l’anno in cui mi sono affacciato per la prima volta in Kenya.
Sembra così lontana oggi quella data.
E quante cose sono cambiate da quella Malindi così distante dai cellulari, dalle migliaia di inquinanti automobili, dalla tecnologia. 
Per non parlare di Watamu, l’oasi dei sogni dei pochi viaggiatori che vi accedevano estasiati.
Era un Kenya ancora naturale, mi si passi il termine, intaccato sì dalla prepotente presenza dei bianchi, ma ancora molto distante moralmente e mentalmente dalle usanze occidentali.
All’epoca viaggiare costava tanto e il Kenya era una meta un po’ d’élite, poco inflazionata e poco conosciuta. Non c’erano ancora tutti quei vip e i grandi magnati a dettar legge (e a fare arrabbiare le autorità locali). La costa di Watamu era ancora selvaggia e sgombra da tutte quelle ville, i locali, i bar e i resort che si contavano sulle dita di una mano.
Erano gli anni in cui passeggiare per il villaggio era bello.
Poche erano le “prepotenze” dei locali affamati.
Era bello entrare nelle case delle persone, parlare e mangiare con loro, senza essere fissati come “maledetti colonizzatori”, come accade oggi.
Ci tollerano appena, si percepisce, e noi tolleriamo poco loro.
Gli anni ’70 e ’80 erano passati da un po’ e il nuovo Millennio era alle porte, ma ancora si respirava l’aria rilassata degli ambienti riservati delle comunità straniere, frequentanti da pochi personaggi influenti e ben vestiti, mentre fuori i rispettosi turisti si godevano ciò che restava dell’Africa, con tutti i suoi colori, i profumi e il folklore.
Oggi questa immagine (perfettamente descritta nel film “Nel Continente Nero” con Diego Abatantuono) è completamente ingigantita.
Migliaia di wazungu vagano per le vie delle località costiere, con l’aria annoiata.
Li vedi seduti nei numerosissimi locali (gestiti per lo più da connazionali) a chiacchierare (o spettegolare?) per ore intere.
Ci si incontra a orari prestabiliti per il caffè e a orari prestabiliti serali si va a ballare nelle numerose discoteche.
Si osservano vecchi caproni accompagnati da stanghe cioccolato; aiutanti giovani rasta a braccetto con signore abbronzatissime (volevo dire incartapecorite ma non sarebbe stato carino).
E’ davvero tutto qua questo posto?
Non che tutto questo non ci fosse tanti anni fa, ma forse era più sobrio, più discreto, meno preponderante nel quadro generale del turista-residente.
Chissà come sarà fra 10 anni questo posto, mi chiedo spesso.
Immagino Watamu, Mayungu, Malindi e Mambrui un’unica fascia selvaggiamente abitata e costruita.
Villoni, resort, bar e ristoranti…
Rabbrividisco.
Faccio anche io parte, nel mio piccolo, di questo scempio.
Cerco di non vergognarmene, mantenendo basso il mio profilo di costruttore-colonizzatore. Regolo il mio intervento in modo da non esagerare e mi rendo conto di essere una goccia nel mare.
Una mosca bianca, forse grigiastra, che sogna un’Africa che non c’è più, almeno qui, sulla bellissima costa keyiota.
Sono infastidito dalla pesante risposta delle autorità locali, che cercano di scrollarsi di dosso venti anni di libera esagerazione.
Mi spaventa la reazione e mi disturba sapere che è stata anche e soprattutto colpa nostra.
Vorrei fare qualcosa per tornare indietro e mi rendo conto che sto soltanto blaterando pensieri insensati.
Watamu offre ben tre banche, distributori, gelaterie, ristoranti italiani, localetti alla moda ed è punteggiata da migliaia di costruzioni, alcune immense, distanti perfino architettonicamente dallo stile originale.
Se ci fermassimo solo un attimo, noi che frequentiamo da tanti anni questo posto, a ricordare com’era prima, forse potremmo lanciare un segnale diverso, positivo e rispettoso a chi verrà dopo di noi e che probabilmente è già qui.
Non so voi… ma a me questo posto non dà più le stesse sensazioni.

TAGS: Andrea CoppolaAndrea Watamu

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