Editoriali

EDITORIALE

Kenya e Media: ecco come si attiva la catena dei danni

Ogni volta è peggio: da una triste notizia ripercussioni su tutto

22-11-2018 di Freddie del Curatolo

Oggi il settore turistico di Malindi e Watamu ha organizzato una conferenza stampa per ribadire che la zona dove si è svolta l'azione criminosa che ha portato al rapimento di Silvia Romano, è ben distante dalle località turistiche balneari del Kenya e che oltretutto anche in quell'area remota dell'entroterra è il primo episodio di questa gravità. Anche questa volta si sente la necessità di fermare quella catena mediatica che rischia di mettere immotivatamente in ginocchio un'intera industria, da cui dipendono migliaia di lavoratori keniani e molti investitori non solo italiani.
Alla triste vicenda accaduta non può e non deve aggiungersi anche un possibile ennesimo grave danno per questo Paese. 

LA CATENA DEI DANNI
Ogni qual volta esce una cattiva notizia che riguarda stranieri di stanza in Kenya, soprattutto se si tratta di viaggiatori o vacanzieri, si mette in moto la dannosissima catena dell’informazione del giorno d’oggi, che mai come in questi ultimi tempi è strettamente legata all’andamento del turismo.
 Danni che partono dalle notizie non ufficiali trasmesse da blog e social, tradotte in malo modo o in maniera tendenziosa dalle agenzie e dai media stranieri, con il contorno dei luoghi comuni che già circolano sul Paese, soprattutto per episodi del passato. 
Ecco i principali anelli di questa catena che rischia di recare danni da milioni di euro a tutto un sistema commerciale e di aggiungerlo alla tristezza di notizie che avremmo voluto evitare di leggere. 

1. CIRCOSTANZIARE L’AREA GEOGRAFICA
Il Kenya è un Paese grande tre volte l’Italia. 
Scrivere che il Kenya è pericoloso perché al confine con la Somalia ci sono attacchi dei terroristi, sarebbe come dire che tutta l’Italia è pericolosa perché nel quartiere di Scampia a Napoli si sparano in pieno giorno. Ma soprattutto, nel caso specifico di una notizia di cronaca nera che riguarda uno straniero, è importante dare l’indicazione esatta del luogo: un villaggio a 60 chilometri dalla costa, non è la costa. Nessuno, credo, si sognerebbe di dire che Alessandria è sulla costa ligure, né che L’Aquila è una località costiera dell’Adriatico. Sarebbe anche bene sapere che il Kenya è diviso in Contee, che hanno sostituito le vecchie regioni. Ma Contea di Kilifi non significa “Kilifi”, così come sub-distretto di Malindi, non significa Malindi. Lamu ha avuto gravissimi danni d’immagine ed economici, perché ogni volta che c’era un attentato somalo oltre cento chilometri a nord dell’arcipelago, ma in una zona che fa parte della Contea di Lamu, i media scrivevano semplicemente “Lamu, terror attack”. 
Così spesso avviene in Italia: non solo tutto il Kenya viene ridotto a una cittadina, ma tutti i piccoli villaggi sperduti e non frequentati dai turisti, possono diventare una cittadina sul mare.

2. CENTRO COMMERCIALE? 
I media locali, anche quando parlano di piccoli villaggi africani, li chiamano giustamente “trading centre” il mercato, lo spiazzo pubblico dove convergono venditori di frutta e verdura, uova ed altri generi di conforto, e sono presenti chioschi e al massimo qualche negozietto in muratura, solitamente c’è l’unico vero spaccio “alimentari e drogheria” della zona. Sotto un albero, parcheggiate, le moto taxi con relativi conducenti ed altri crocicchi di persone solitamente allegre che chiacchierano o commerciano. 
Per la stampa italiana “trading centre” diventa semplicemente “Centro Commerciale”, esattamente come tradurrebbero “mall”, quindi di colpo si presume che il villaggetto sia una cittadina, con un vero e proprio centro commerciale come intendiamo noi europei, magari con supermercati e negozi. 
Di conseguenza si può pensare che sia un luogo molto frequentato, in particolare da turisti. 

3. COPIA-INCOLLA DAI SOCIAL E DAI BLOG
La stampa italiana fino a pochi anni fa attendeva le informazioni ufficiali dal nostro Ministero degli Esteri, dall’agenzia di stampa (ad esempio, dell’ANSA, che in Kenya aveva un corrispondente fisso) da quotidiani che a loro volta avevano corrispondenti in loco (era il caso del Corriere della Sera) o inviati speciali. Oppure aveva i cosiddetti “stringer”, ovvero giornalisti keniani che inviavano le notizie dal luogo.
Oggi ogni redazione italiana prende le notizie da facebook, da twitter e altri social,  ma soprattutto da blog inattendibili scritti da NON professionisti, spesso nemmeno lontanamente giornalisti, che fanno a gara solitamente a chi la spara più grossa per incrementare i “clic” al loro sito ed avere maggiori introiti di pubblicità. E’ il caso del rapimento dell’italiana a Chakama, che secondo il primo pseudo-giornalista keniano era avvenuto in una stanza d’albergo di Kilifi, e secondo un altro in una casa privata di Malindi. Quando arrivano le informazioni dalle fonti ufficiali, ormai è già tardi e il virus dell’informazione errata è già stato sparso ovunque.

4. COLLEGAMENTI SUPERFICIALI
Senza conoscere la situazione politica e sociale di un Paese, la sua storia e la sua gente, è difficile poter descrivere a ragion veduta i contorni di una notizia, senza fare danni. 
Se non si è esperti di un Paese (ancora ancora di un Continente) bisognerebbe limitarsi a dare la notizia.
Ad esempio, non si può e non si dovrebbe scrivere che “nella zona di Kilifi sono già avvenuti rapimenti ai danni di stranieri” perché non è assolutamente vero, ed è facile informarsi: gli unici rapimenti ai danni di stranieri (l’ultimo risale a sette anni fa) sono avvenuti al confine con la Somalia e in un’isola a nord di Lamu, in zone battute da banditi somali e da pirateria e poco frequentate dai turisti. E quasi sempre a danno di residenti, volontari o missionari.

5. VERIFICARE PIU’ FONTI 
Se un solo sito o una fonte straniera trasmettono un dato, sarebbe buona regola (e lo era, quando la professione di giornalista era una cosa seria) attendere che almeno altre due portino la stessa notizia, lo stesso dato, la stessa congettura.
Altrimenti, come ormai sempre più spesso accade, siamo di fronte a tante ipotetiche verità che oltre a confondere le acque, spargono ovunque l’idea che ognuno possa scegliere la verità che preferisce o quella che gli fa più comodo. 

6. MIX DI FAKE NEWS ED ESAGERAZIONI,
Oltre ad affidarsi a fonti non sicure, spesso i media aggiungono particolari, mescolando la realtà di comunicati ufficiali o di fonti dirette, con la fantasia, la malafede o la cialtroneria di chiunque navighi in rete, creando mix deleteri.
In questo modo anche i numeri vengono modificati, gonfiati, infilati in un calderone per cui un commando di 5 persone ad 80 chilometri da Malindi, diventa un commando di ottanta persone. Altro esempio pratico: la polizia (fonte ufficiale) parla di banditi.
Un blogger riporta la sua opinione “sospetti terroristi di Al Shabaab”. Un giornalista di testata aggiunge questa dichiarazione al suo articolo, aggiungendo, per renderla plausibile che nella zona tra il Galana River e il Tana River (che dista almeno altri 100 km da Chakama) si sono visti in passato militanti di Al Shabaab. In un articolo, il principale quotidiano nazionale, titola “Attacco a Malindi di militanti di Al Shabaab”.
E ovviamente certi media deplorevoli riprendono tutto, e magari calcano anche la mano.
Non può essere certo che non si tratti di fanatici o di terroristi, anche se difficilmente legati alla cellula della "gioventù" somala, ma darlo per scontato è da impuniti, imbelli ed altri aggettivi che iniziano con "im".  
Ci ritroviamo davanti alla vecchia barzelletta del “passaparola” in cui il pesciolino del pescatore diventava uno squalo. Ma qui non cè proprio nulla da ridere, anzi.
E' il male supremo che ha invaso il mondo dell’informazione e ha decretato la sua morte. 

TAGS: editoriale kenyaitaliana kenyainformazione kenya

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