DAL MIO ESILIO VOLONTARIO
10-10-2020 di Freddie del Curatolo
I cantautori, per anni stanziati soprattutto tra l’Italia e la Francia, con una derivazione spuria e selvaggia in Nord e Sud America, sono una specie di esseri umani quasi estinta.
Creature metà musicista e metà poeta, cantavano della propria vita, della loro visione del mondo e di quel che sentivano nel cuore e assimilavano nella mente: avventure amorose, traumi dell’infanzia, drammi epocali, ideali politici, letture divorate e film bevuti come vino, più rosso che bianco.
Dai loro componimenti si sprigionava qualcosa di meraviglioso con cui crescevi più sano, più libero e secondo me più felice, anche se a volta ti faceva incazzare il fatto che la vita non fosse come molti di loro la sognavano.
Però ti accompagnavano lungo un percorso che indubbiamente esisteva, tra il fascino della strada da percorrere e l’immensa incertezza del cielo. E lo facevano utilizzando suoni, strumenti, melodie ed arrangiamenti che attingevano alla tradizione tutta della musica del mondo, spesso mescolandone spiriti ed essenze, come alchimisti e creando liaisons speciali con altri strumentisti.
Purtroppo oggi quelle creature sono pochissime, specie in Italia.
Spesso vivono nascoste e si accontentano, come orsi marsicani, della loro diversità.
Io ho la fortuna di conoscere uno di questi esemplari.
Stefano Barotti è nato e vive a Massa, bagna i piedi e conta le onde a Forte dei Marmi e se una volta è andato in America è stata solo colpa della musica.
A 45 anni ha dato alle stampe il quarto disco in 17 anni ed è un lavoro prezioso, completo, emozionante. Con “Pensieri Verticali”, nel 2015 aveva raggiunto la maturità artistica e scritto alcune gemme che sono state tranquillamente ignorate dall’estabilishment musicale e quel che è ancor più triste anche dalla critica specializzata.
Non fatevi una colpa se non lo conoscete ancora, non è solamente una vostra mancanza.
Ora torna a colorare l’anima con un album ancora più complesso e vario, che lo colloca sempre più come musicista a tutto tondo, forte di uno stile personale dato dal suo modo di raccontare e di esprimere sentimenti che sorvola in maniera mai banale su mezzo secolo di evoluzione della canzone.
“Il grande temporale”, titolo quanto mai azzeccato per i tempi che stiamo vivendo, è un viaggio musicale che abbraccia il progressive degli anni Settanta.
Lo fa senza manierismo sia nella “title track” con cui si apre l’album con i synth di Fabrizio Sisti crea un’atmosfera rinforzata dall’affiatamento della sezione ritmica di Vladimiro Carboni (batteria) e Luca Silvestri (basso) che seguono da anni l’autore anche dal vivo, che in almeno altri tre episodi: nel vortice spazio-tempo che avvolge “Aleppo”, dove la poesia lega ricordi d’infanzia e guerre inevitabili, sia quelle create dall’uomo che quelle generate dalla sua psiche e in “Il cielo e il prato” in cui eccelle il fantastico basso di James Haggerty e in “Marta”, una “Marinella” più spietata e fredda (come l’epoca attuale) sul femminicidio.
Ma non sono pose, Stefano è uno di quei personaggi veri che non hanno bisogno di vestirsi di maledettismo e atteggiarsi ad artista incompreso, né ha bisogno di trovare argomenti di conversazione. Da tempo si è fatto una ragione che la musica non paghi e continua ad imbiancare case per vivere.
Oh, no questo non è proprio da cantautore!
Infatti sceglie un reggae per raccontarlo, nell’autobiografica e ironica “Painter Loser”, che fa il verso al Marley di “Is this love”. Così come sono vivi richiami a geni diagonali della canzone d’autore come Ivan Graziani e lo Jannacci evocato in “Enzo”, fantastico e surreale peana.
Perdersi nei racconti di Barotti è un abbandono consapevole punteggiato da musicisti con i fiocchi (la banda di amici americani, da Jono Manson a Joe Pisapia e i raffinatissimi italiani Paolo Ercoli (dobro e mandolino) e Vittorio Alinari ai fiati).
Regalo, come avrebbe detto Lucio Dalla, di una produzione niente male.
Con tanta classe e purezza non è difficile che un pezzo come “Spatola e spugna” oltre a mandare in paradiso la classe operaia e a centellinare con sapienza distillata nel Tennessee la nostalgia, diventi un cortometraggio neorealista di quando il calcio era un romanzo popolare.
Frammenti di quando “tutto era magico”, ma anche la bellezza assoluta di una canzone d’amore altissimo (“Stanotte ho fatto un sogno” con un crescendo d’archi che è tutt’uno con una capacità di frugare nel cuore che è davvero di pochi) e di altri nobili sentimenti che non si vergognano di svelarsi davanti al cinismo travestito di normalità di questi tempi (“Quando racconterò” e “Tutto nuovo”, con richiami al più romantico e solare Pino Daniele).
D’altronde cosa volete aspettarvi da uno a cui ha telefonato addirittura Tom Waits?
C’è davvero poco altro da dire, tenetevi le orecchie per ascoltare qualcosa che davvero merita e se ce la fate chiudete per un po’ la bocca e il telefonino.
Non atterritevi, non dovete sforzarvi di stare attenti, non c’è troppo da capire.
E’ sufficiente farsi trasportare dalla musica come fosse un coloratissimo ombrello in una notte di luna, mentre gocce di un grande temporale cadono tutto intorno.
Stefano Barotti – “Il grande Temporale” (La Stanza Nascosta Records 2020)
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