Editoriali

EDITORIALE

Il nuovo Kenya alla ricerca del turismo perduto

Più infrastrutture e meno marketing: cosa servirebbe

11-10-2024 di Freddie del Curatolo

Essere un Paese in via di sviluppo, soprattutto paragonando le proprie aspettative allo stagno sociale, etico e culturale di buona parte dell’occidente, può essere eccitante e far pensare ad un futuro pieno di possibilità.
Per il Kenya è in buona parte così, con l’aggiunta di quel tocco di imponderabile che l’Africa da sempre impone, con tutti i problemi ancestrali che si porta dietro, e con le grinfie di chi come sempre ne vuole approfittare. Dall’altra parte può affiorare anche una bella “crisi d’identità” che porta a riconsiderare priorità e a “vendersi” in una certa maniera.
In questo senso, il turismo è un’evidente cartina di tornasole. Il Kenya da due anni a questa parte sta sperimentando il ritorno dei viaggiatori internazionali e dell’interesse nelle sue meraviglie, dopo l’inevitabile oscurantismo pandemico. I numeri, sono ancora lontani da quelli di un Paese che promette di ospitare 10 milioni di turisti entro il 2030 (ma le promesse, si sa, appartengono ad una classe ben definita di oratori…), ma l’aumento annuo del 20-25% è una realtà che dovrebbe concretizzarsi anche nel 2024.
Il problema è: come attirare più stranieri?
Cosa desiderano di più da questo Paese?
Se le tendenze del turismo mondiale segnalano, specie perché in gran parte sono i giovani a viaggiare, che privilegiano località piene di divertimento, servizi, tutto a portata di mano o con delle unicità che da altre parti del mondo non si trovano, il Kenya si pone più nel secondo gruppo che nel primo.
I safari, specialmente quelli nelle riserve protette e meno nei parchi nazionali gestiti dal governo, sono sempre più un fenomeno di nicchia, che porta maggiori introiti ai proprietari o affittuari di lodge e campi, piuttosto che all’intero indotto. I safari costano, e gli appassionati tendono a fare solo quello: arrivano con l’aereo a Nairobi e partono per la riserva. Spesso addirittura con un altro aereo più piccolo.
E chi li vede?
Diverso, ma non troppo, il discorso del mare. Qual è la percentuale di turisti che arrivano a Mombasa, vengono trasportati negli hotel e resort della costa, ed escono poi in giro tutti i giorni, senza rimanere felicemente prigionieri di piscine, all-inclusive, massaggi e cocktail al cocco sotto le palme?
Quanti bed&breakfast ci vogliono per fare i numeri di un villaggio turistico Alpitour?
Soprattutto, di quali servizi avrebbe bisogno il Kenya per attivare un turismo modello Thailandia (per fare un esempio di chi, prima della pandemia, aveva raggiunto i 10 milioni di turisti all’anno).
Innanzitutto più strutture moderne, ma per dare la spinta a nuovi imprenditori e ai vecchi di ristrutturare, è lo Stato a pensare ad infrastrutture incentrate sul miglioramento dell’afflusso e della qualità dei viaggiatori.
In quest’ottica il recente incontro tra istituzioni italiane e keniane per la famosa strada costiera che collegherebbe Malindi e Watamu è un buon segnale.
La strada Casuarina-Jacaranda-Watamu è proprio l’esempio di quel che si dovrebbe fare, per creare una “riviera”, che permetta al turista di uscire e godere di diverse soluzioni e non pensare di essere in una “prigione dorata”. E’ straordinario come una strada possa cambiare l’intera morfologia turistica di un Paese, basti pensare ai collegamenti un tempo brulli e desertici tra le località del Mar Rosso, ad esempio, oggi piene di locali, ristoranti e negozietti. Inutile poi dire che per invogliare l’afflusso di ospiti, un aeroporto in linea con i tempi e con frequenze di arrivi e partenze degne di una località turistica, è imprescindibile.
La nuova ministra del turismo del Kenya, Rebecca Miano, arriva dalla gestione di aziende, essendo stata a capo di importanti organismi statali e parastatali, prima tra tutte la KenGen, l’apparato nazionale dell’energia elettrica, che controlla anche Kenya Power & Lightning. Miano è una manager di valore e speriamo che possa applicare le sue qualità in un dicastero troppo spesso identificato con un marketing sterile e un nomadismo pressoché inutile di fiere e proclami social. Importante certo, come sta facendo, pensare alla fauna selvatica e al conflitto uomo-animali, così come ad invogliare i propri cittadini a conoscere il proprio territorio, ma è ora di pensare ad un Kenya competitivo per il turismo internazionale, e sarebbe un peccato non cogliere quest’occasione, ora che torna la voglia di approcciarlo per le sue tante meraviglie.

TAGS: turismoeditorialemarketinginfrastrutture

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