SOCIETA'
17-06-2018 di Freddie del Curatolo
Tra un campionato mondiale di calcio e l’altro passano quattro anni.
Tra un campionato mondiale di calcio e un campionato continentale di calcio passano due anni.
Tra un campionato nazionale di calcio e quello successivo passano due mesi e mezzo, tra una partita e l’altra una settimana, tra una domenica di campionato e una sfida di coppa tre giorni appena.
L’importante, nella vita, è suddividere il presente in tanti piccoli passati prossimi che viaggiano qualche secondo prima di te, come una trasmissione via satellite.
Questo scrivevo alcuni mondiali fa, appena arrivato in Kenya.
Oggi, in questo mondo frenetico e senza collegamento tra passato e futuro, per leggere il nostro confuso presente sembra naturale affidarsi ai pochi eventi che hanno cadenze certe, che sei sicuro che te li troverai lì, puntuali più di un esattore delle tasse, e festosi più delle strade del centro all’antivigilia di Natale.
In Africa poi, dove tutto cambia dall’alba all’ora di pranzo, come scriveva Hemingway, dove nemmeno la Natura riesce più a scandire le stagioni con la precisione di un tempo, quando le grandi piogge arrivavano al massimo con una settimana di anticipo o di ritardo…in Africa i Campionati Mondiali sono una linea di confine, un riassunto delle puntate precedenti, un censimento, un grande reset.
Dall’ultima coppa del mondo ad oggi, troviamo un Kenya che ha messo in atto molte di quelle riforme e di quei progetti annunciati nella Vision 2030 (anno in cui, guardacaso, ci saranno i mondiali probabilmente in Africa, anche se del Nord). C’è la nuova ferrovia Mombasa-Nairobi, ci sono nuove strade e nuovi moderni quartieri e centri commerciali a Nairobi, proprio nei giorni scorsi è stata inaugurata la prima sezione della tangenziale di Mombasa.
Il Presidente della Repubblica è sempre lo stesso, ma la novità è che non esiste più l’opposizione.
Un po’ come in Italia, ma qui ha preferito unirsi alla maggioranza per portare avanti la madre di tutte le battaglie interne, quella contro la corruzione.
Cattive abitudini o meno, la speranza è che venga ridotto il grande divario tra ricchezza (di pochi) ed estrema povertà, quella disuguaglianza economica che fatalmente diventa anche sociale e che è ancora causa di disagio giovanile, malattie, prostituzione, criminalità nei centri urbani.
Ci sono segnali, c'è una consapevolezza nuova in questi anni, forse dettata dall'informazione a portata di tutti, che però (vale la pena ricordarlo) non vuol dire cultura, e non può sostituirsi all'educazione e alla morale.
In quattro anni sono nate associazioni autoctone che puntano all'ecologia, con una legge epocale è stato abolito l'uso dei sacchetti di plastica, si lotta contro l'inquinamento, anche se nell'oasi di Lamu potrebbe succedere un casino, tra centrale a carbone e porto industriale.
Ma il Paese?
La gente?
Ha sentito la scansione del tempo, il tic-toc del metronomo? Ha imparato un nuovo passo di danza, adeguandosi alla musica contemporanea o vive ancora nei suoi ritmi tribali?
Dopo soli quattro anni non si può certo pensare che il Kenya a due velocità (la Capitale Nairobi e il resto del Paese tra lande rurali, savana, foreste, costa e montagne) potesse convergere, semmai certe abitudini e storture del mondo occidentale arrivano anche qui.
Perché lo diciamo spesso, i keniani sono bravissimi e più veloci di noi ad imparare, peccato siano cresciuti molto più tardi di noi, e siano costretti ad imparare le cose peggiori di un mondo vecchio e rincoglionito. La speranza (sempre più remota) è che possano assimilarle con la freschezza e la leggerezza propria di una civiltà giovane.
Fatto sta che qui, a differenza dell'Europa frazionata e divisa, delusa e diffidente, esiste ancora quell'ancora di salvataggio da odio, solitudine ed altre tristezze umane, che si chiama "gente".
Il segreto è avere noi la forza e la voglia di scendere in strada e mescolarsi con questa gente: anche durante i mondiali, che escono luminescenti da televisori LED da cinquanta pollici piazzati anche in baretti di legno, lamiera e makuti, che strepitano pubblicità milionarie girate negli slum, inneggiano a fidi bancari e superalcolici.
Non si vedrà solamente un popolo intossicato dai telefonini, dalle scommesse online e da altre mode globali, ma si aggiornerà il calendario con gli stessi sorrisi, la stessa ingenuità, la sincera irruenza, le esplosioni di risate, il piacere dell’incontro e della condivisione, anche solo di una coca cola e di un piatto di patatine fritte. Esserci e stare insieme, nonostante le sciagure private e soprattutto dell’umanità. Quello che ci apparteneva ed è legato ai ricordi di Messico ‘70, o del trionfale Mundial del 1982 in Spagna. Quello che abbiamo iniziato a perdere con i mondiali di casa nostra nel 1990 al sapor di tangente e di speculazione edilizia e che dall’avvento dei social e delle app è stato definitivamente seppellito. E sarà mica un caso che alla kermesse sovietica non siamo presenti.
Nel retrobottega di Malindi, lungo la strada del quartiere popolare di Majengo, dal pomeriggio i pub si animano di un’umanità disparata che arriva indifferentemente in motocicletta, con sfavillanti fuoristrada, scalza a piedi o in bicicletta. Nessuno guarda nessuno dall’alto in basso, il dirigente della polizia con la camicia a quadri i mocassini lucidi da il cinque al fabbro con le infradito e la maglietta strappata. E la sera, al terzo gol di Cristiano Ronaldo contro la Spagna, l’intera sfilata di locali male illuminati sembrano esplodere nello stesso boato dello stadio di San Pietroburgo. In alto le bottiglie e le tonalità di voce per commentare un gesto, l’apoteosi dell’imprevisto, dell’inconfutabile.
Se è vero, come diceva Pier Paolo Pasolini, che il calcio è l’ultima rappresentazione sacra dei nostri tempi, i telespettatori di Majengo sono degni attori del grande spettacolo che abbiamo dimenticato: quello della felicità gratis, quello dello stare insieme senza tante pippe e paranoie.
Tra un campionato mondiale di calcio e l’altro, passano quattro anni.
Tra una crudele retrocessione e l’entusiasmo di una promozione, può non bastare una vita.
La sofferenza ferma i cronografi, la gioia accelera il battito del cuore e la velocità delle lancette.
Ma il campionato mondiale di calcio è lì che aspetta, puntuale ripara i meccanismi stralunati del destino, sincronizza ogni quattro anni gli orologi.
Proprio come l’Africa.
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