REPORTAGE
21-06-2012 di Freddie del Curatolo
Gli anziani mijikenda sono alberi.
Da settanta, ottant’anni vivono in simbiosi con la Natura.
Lo stesso identico ambiente che li ha visti nascere, familiarizzare con erbe, piante e sterpaglie.
Li ha riempiti di terra e polvere e poi lavati con acqua argillosa.
Li ha nutriti con acqua di cocco e frutta caduta dagli alberi, con il mais pestato del campo di casa e gli spinaci dell’orto.
Li ha accuditi nelle case tirate su dal fango della radura e coperti dalle foglie secche del palmeto.
Ad ogni stagione sono stati arsi più volte dal sole ed inumiditi dalla rugiada, seccati dal vento e infradiciati dagli acquazzoni.
Per questo ancora adesso dormono all’aria aperta, con una stuoia come materasso e un turbante di stracci come cuscino.
Non è stato un sonno regolare, il loro.
Avevano scelto uno dei luoghi sacri per eccellenza della loro cultura, e si sono ritrovati in un campo di mais.
Noi preferiamo una minitenda da trekking da una ventina di euro.
Ci svegliamo con le ossa rotte ma siamo stati protetti dal freddo e dall’umidità di una notte d’inverno equatoriale a Kaloleni.
L’albero sacro di Mepoho, con la luce del mattino, trasforma i raggi del primo timido sole in fasci di luce irregolari che rendono ancor più palese la situazione che ieri sera ha fatto sobbalzare gli “elders”.
Siamo nel bel mezzo di un terreno coltivato a grano. In ogni altra parte del mondo si griderebbe allo scandalo. Questo è allo stesso tempo un sito storico, culturale e religioso. Un po’ come il Taj Mahal in India o il Pantheon a Roma…certo, stiamo parlando di una piccola cultura, di un’etnia africana di due milioni di persone, ma anche nella stessa costa keniota, hanno reso museo le rovine di Gede, cittadina araba senza una storia particolare, se non quella commerciale. Mentre il luogo sacro della cultura Mijikenda, dove la regina Mepoho, la profetessa, nacque e predicò, ai piedi delle lande da cui partì la suddivisione dell’etnia in nove tribù, è lasciato in mano agli eredi del proprietario del terreno che non hanno intenzione di cederlo. “E’ il governo a dover fare la proposta per l’acquisto o l’affitto – spiega John Mitsanze – noi possiamo garantirne la gestione. Dovrebbe essere stipulato un accordo in base al quale i proprietari siano costretti a cedere almeno la parte di terreno in cui è compreso Mbambakofi, l’albero sacro sotto il quale Mepoho predicava”. Ci sediamo tra le radici dell’immenso Mbambakofi e osserviamo il paesaggio intorno: da una parte il manipolo mijikenda che ricompone i propri bagagli e si prepara al secondo giorno di marcia. Le mama preparano il tè con il latte, c’è chi si pulisce i denti con rametti di rovo e chi confabula ridendo. Li avevamo sentiti ridere e scherzare anche nel buio della sera e con le loro voci allegre ci eravamo addormentati.
Dall’altra parte del campo, dall’alto si scorge il disordinato crocevia di Kaloleni. E’ un altro vociare, più frenetico e moderno, rumoroso e mescolato a marmitte e bassi di autoradio, ma altrettanto vivo e sereno. L’albero sembra lo spartiacque tra un passato selvatico, primordiale, pacifico e un presente in cui, almeno qui a Kaloleni, si fa fatica a vedere molti segni positivi della civiltà. Una preghiera Taireni za mulungu… e siamo pronti a partire.
Il cielo dell’entroterra minaccia pioggia ma la comitiva non si scompone. Canti e balli, scanditi dal corno giriama, da campanelli che sono cerchi di ferro battuti con un batacchio e da percussioni da viaggio a tracolla dei musicanti, avvolgono la cittadina commerciale che s’inerpica sulle colline di Kambe. La sua via principale ha baracche abbarbicate tra sassi e poco cemento. Vendono corde, semi, vestiti usati, legumi, pentolame, sacchi di farina, taniche vuote, polpettine di patate e samosa, paraffina, pescetti essicati, piatti e tazze di plastica. E’ un mondo di necessità povere e semplici, quello che sfila al nostro fianco. Fino alla piazza alta, nello slargo tra un pub, un ferramenta, il barbiere e due chioschi di pizzicagnoli. Qui viene allestito lo spettacolo di strada più entusiasmante a cui questa gente possa assistere.
Un teatro canzone d’altri tempi che racconta storie nella loro parlata, che è la lingua di pochissimi. Termini, forme gergali, locuzioni che affratellano in modo diretto e vero. Filastrocche danzate, balli popolari come rituali di riappacificazione, un senso di già vissuto e di dispiacere che molto di questo sia già finito. Si potrebbe andare avanti così fino a notte fonda, ma sono solo le dieci del mattino. La truppa inforca la grande “carretera” che si mangia la collina dalla parte opposta, per inoltrarsi nella foresta di Jibana. Qui c’è chi non ha mai visto un mzungu in vita sua, bimbi che scappano terrorizzati alla vista dell’obbiettivo della macchina fotografica, donne che si avvolgono per intero in parei colorati, ragazzini che guardano in tralice. Solamente gli anziani non si scompongono. Ci osservano con la dignità che portano appesa alla poca carne e ai peli bianchi della barba che sono un tutt’uno con i capelli. Una dignità che è buona parte del tesoro dell’Africa. Ci si potrebbe nascondere con loro, in questo saliscendi, nelle pieghe verdi di questo lenzuolo ondulato di mondo.
Ci fermiamo, li salutiamo.
Due parole in dialetto bastano a far crocicchio, a diradare la leggera inquietudine provocata dall’incedere del fuoristrada. Spuntano sorrisi grandi come l’arcobaleno che disegna il contorno delle acacie.
Poco distante abbiamo notato una scuola abbandonata che qui chiamano “politecnico”. Insegnavano ai contadini a fabbricarsi sedie e tavoli, alle loro sorelle taglio e cucito.
Qui non ce n’era proprio bisogno. Le panchine ricavate da tronchi di palma all’ingresso delle capanne vanno benissimo e nessuno si aspetta tende ricamate alle finestre.
Basterebbe saper scrivere e leggere bene e conoscere la propria storia.
Siamo a kaya Jibana, nel cuore dell’entroterra della costa keniota. Mille anni fa, qui, non era molto diverso da oggi.
Ed era sicuramente meraviglioso.
Su un poggio attendiamo i camminatori, proprio quando le nuvole innaffiano la boscaglia con la violenza di un enorme giardiniere che inciampa.
Spunta la bandiera keniota dalla collina di fronte. Il popolo impassibile balla sotto la pioggia incessante.
C’è una mama che è scivolata e si è fatta male a una caviglia. La carichiamo in macchina e attraverso kaya Chonyi la portiamo a Tzitzoni.
Alla scuola elementare, Mama Dahabu, Mama Kapucheche e le altre stanno già predisponendo polenta e verdure per la cena.
Avranno da attendere, perché il percorso del secondo giorno di cammino è davvero lungo e la pioggia l’ha reso particolarmente ostico.
Arriveranno, esausti, alle nove di sera, dopo aver ballato, erudito e cantato anche a kaya chonyi e in altri tre villaggi sulla strada.
E’ più forte di loro. Anzi, è la loro forza.
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