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LUTTO

Ciao Magni, il Kenya era anche la tua terra

Il cantautore brianzolo si è spento a 71 anni

14-01-2021 di Freddie del Curatolo

Aveva amato il Kenya in maniera naturale, pura come lo era lui.
Era stato uno dei suoi ultimi viaggi fisici, non spirituali.
Lui che è stato viaggiatore della parola, tanto da arrivare spesso prima di quasi tutti i suoi colleghi, e delle note, sperimentando un po’ tutto compreso l’insperimentabile.
Francesco Magni, cantautore brianzolo che ebbe il suo momento di popolarità partecipando al Festival di Sanremo 1980 con la provocatoria ballata “Voglio l’erba voglio” e che per primo ha sublimato il dialetto che fu di Manzoni in una serie di canzoni che raccontano di una terra di contadini e gente semplice mangiata via dal progresso per nulla sostenibile, ci ha lasciato a 71 anni dopo una lunga malattia che fino all’ultimo non è riuscita a minare la sua ironia, la voglia di celebrare l’arte e le piccole cose. Oltre che poterlo accogliere più volte a Malindi. Il ricordo più bello è una giornata nel villaggio di Kaoyeni a cantare e spiegare perché la Lombardia del primo dopoguerra per tanti versi era così simile, pur essendo un altro mondo, all'Africa di oggi.
Poi ho avuto anche l’onore di scrivere la prefazione della sua autobiografia (anzi “disagiografia” come da sottotitolo) “L’erba voglio era nell’orto”.
Eccola. Ciao Franz, maramao e gamberi.

IL GOHU BIANCO

I Gohu, saggi anziani delle tribù Giriama, hanno la pelle come corteccia di baobab.
Si dice che anche loro, come il noto albero africano, vivano fino a mille anni, ma solo in minima parte come esseri umani.
Nel resto della loro essenza immateriale, saranno evocati da altri Gohu e si esprimeranno su tutte le questioni che regolano la loro società.
Quando la berlina con a bordo quattro “wazungu” (uomini bianchi) transita dal villaggio keniano di Kaoyeni, nell’entroterra di Malindi, tre Gohu seduti all’ombra di un’acacia si guardano tra loro come avessero individuato il quarto per la briscola.
Ma i Gohu non giocano a briscola, e nemmeno a burraco.
Per dire la verità i Gohu non conoscono nemmeno le carte da gioco.
Semplicemente, conoscono la verità e sanno che non è necessario spiegarla a nessuno, perché tanto non cambierebbe nulla.
La verità regola il mondo molto meno di quanto non la regoli l’intestino.
Questo diceva il venerabile Kazungu.
Così decidono di seguire con lo sguardo il quarto a briscola.
La berlina s’inerpica sulla verde collinetta che costeggia un rudimentale campo da calcio con le porte ricavate da pezzi di ferraglia arrugginita che un’anima pia o più probabilmente un imbianchino tifoso, ha pittato di bianco.
Si ferma sul cocuzzolo, dove la stradina si fa tratturo impraticabile, ai bordi di un campo di mais bruciato dal sole.
In controluce appaiono i profili di alcune donne che agitano sorrisi e predispongono mani e braccia all’accoglienza.
Dietro di loro, capanne di fango sovrastate da tetti incerti di palme secche da cui in rapida sequenza esce una primavera di anime di ogni peso e misura.
E’ il cuore del villaggio di Kaoyeni.
Dalla berlina esce un omone armato di modi goffi e inoffensivi e bardato di parrucca. Almeno così pensano le donne.
“Non è lui, non è ancora pronto” si trasmettono i Gohu, con il linguaggio delle bisce.
Poi sortiscono due ragazze.
Una ha in faccia polvere d’argilla e in mano una macchina fotografica, l’altra una borsa piena di riso e fagioli a tracolla e lo stupore sulle palpebre di piuma.
Infine si materializza il quarto a briscola.
Ha la statura di un “mzee” giriama, di un anziano del mondo di Waruni, del tempo che fu degli oracoli e delle migrazioni, della caccia e della schiavitù.
Non è la barba bianca, né l’eleganza dell’incedere.
Sono gli occhi come fessure di cielo tra nuvole equatoriali a fare di lui un uomo senza tempo.
Un Gohu occidentale.
“Eccolo” si dicono i saggi giriama nel dialetto dei varani.
In Africa, ovunque ci sia saggezza, c’è una ritualità.
E dove c’è un rito, c’è musica e gente che danza.
Un Gohu è quasi baobab, è quasi legno.
Può riconoscere un tamburo, una kora a chilometri di distanza.
Uno scherzo, prevedere la cassa armonica di una chitarra.
Il quarto a briscola si siede in mezzo a un crocicchio, mentre altri bambini accorrono con la festa nel petto.
C’è gioia ai funerali di un Gohu.
Lo sanno tutti che diventerà un baobab o, se proprio gli va male, un ficus benjamin.
La danza è leggera, la musica è vibrante, energica, positiva.
E intorno tutto è vita.
Quando il Gohu bianco intona la sua canzone, i saggi giriama capiscono che sta cantando un de profundis.

E la mia terra la va in malora
con la roggia il ciel e ‘l prà
E la mia terra la va in malora
ghe pù nient, pù nient de fa

   

E’ un funerale molto più grande, più inesorabile forse.
Ma proprio per questo la gioia che ne sgorga è straripante, infinita.
C’è speranza negli sguardi delle madri che benedicono questo incontro, c’è meraviglia nei piedi dei ragazzini che saltano ad ogni pennata di chitarra, si vede l’ombra di un bel sogno, posarsi sui fianchi delle adolescenti che saranno al centro delle rappresentazioni gaudenti o drammatiche di ogni nuova rinascita.
“E’ una canzone saggia e buona, che vivrà mille anni come noi” confermano i Gohu, con la voce della formica rossa.
Arrivano anche gli uomini.
Alcuni tornano dai campi, hanno le mani ancora sporche di quella terra che l’uomo che vive meno di cento anni ha rubato all’uomo baobab.
Altri ormai lavorano nel mondo regolato dall’intestino e tornano ogni sera al villaggio a lavare di dosso la fatica, con poca acqua fangosa di pozzo.
C’è chi trova un tamburo, chi improvvisa i passi del “mwanzele”, la danza del contadino giriama.
E’ il tempo in cui le fessure di cielo divengono luce, il vento fa suonare le foglie, gli uccelli disegnano l’aria.
E’ la canzone che doveva essere suonata quel pomeriggio, a Kaoyeni.

 

Il Magni chiude l’ultimo accordo.
Si guarda intorno e non riesce a vedere altro che serenità.

Io cerco di tradurre in swahili alla gente del villaggio “La mia terra”, Leni e la Giusina continuano a fotografare volti, vesti, sguardi, sorrisi, timidezza e dignità degli ultimi del sud del Kenya.
I Gohu non sono più sotto la grande acacia.
Qualcuno ha sentito una biscia, un varano e una formica rossa cantare: 

 

E la mia terra la va in malora
con la roggia il ciel e ‘l prà
E la mia terra la va in malora
ghe pù nient, pù nient de fa

 

Forse non è necessario affrontare o condividere il percorso umano e artistico del Magni, per diventare un baobab.
Non sono l’India, l’Africa o l’estremo oriente a consegnarti la patente della saggezza o quella della serenità interiore.
Figuriamoci Sanremo o la Milano da bere.
Vivo qui da tanto tempo e conosco la storia dei Giriama, cerco di occuparmi sempre meno dell’intestino e sempre più della verità.
E  leggendo queste pagine non troverete la malizia, l’autocompiacimento, l’arroganza travestita da buonismo di un moderno “quarto a briscola”, ma la vita vera e inevitabile di Francesco Magni, il Gohu bianco.

TAGS: cantautore kenyaaddio kenyalutto kenyamagni kenya

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