Ogni mattina mi affaccio fuori dalla baracca e guardo le loro vite.
Sono tutt’uno con il fango, la lamiera, il legno.
Sono travi rotte come le loro ossa, però reggono e sanno essere più forti di ogni disgrazia.
Possono crescere figli, accudire i vecchi, sorreggere gli storpi.
Assi marce come sono talvolta i nostri pensieri, instabili su quel terriccio infame in cui però, prima o poi, spunta sempre un fiore, come un sorriso liberatorio.
Sono pietre dure e aguzze, ghiaia sbriciolata, sabbia da costruzioni accennate, mattoni rubati chissà dove.
Convivono e spesso li trovi insieme a fare casa, tetto, pavimento.
Le loro esistenze ridono e si meravigliano di niente perché sarebbe troppo facile lamentarsi di tutto.
Hanno orecchie allenate alle sirene, alle urla dei mercanti, ai pianti dei neonati, la tosse tisica dei vecchi, gli strilli dei bambini, il latrato dei cani e lo squittire dei topi.
Vomitano rifiuti, sputano liquidi tossici, cagano fogne a cielo aperto.
Ci sono occhi grandi e spalancati al posto delle finestre e spesso è il cuore a fargli da porta, cigolante e sconnessa.
Si abbracciano per una nascita e una morte, si ammazzano per uno spicciolo o una birra.
Contrattano, barattano, s’ingegnano, si ubriacano, spariscono e ritornano come se niente fosse stato.
E niente è stato, dopo il calar del sole.
Niente sarà, se ci si potrà svegliare di nuovo.
Ogni mattina mi affaccio fuori dalla baracca e guardo le loro vite.
La vita mia.