L'angolo di Freddie

L'ANGOLO DI FREDDIE

Vacanza in Kenya, tra mal d'Africa e mal di pancia

Malaria demodè, come terrorizzare allora i turisti?

05-12-2024 di Freddie del Curatolo

Ad ogni inizio di stagione turistica, chi vive in Kenya e non è keniano, e grazie a internet e ai social media ha anche la fortuna di leggere siti e blog italiani, è abituato a leggere luoghi comuni, castronerie ed articoli terrorizzanti sulla vacanza in Africa.
Tra le tante campagne di disinformazione e le gonfiature ad arte, virus, infezioni e malattie tropicali hanno spesso la prima pagina. I pericoli per la salute si fanno cliccare sempre volentieri e danno visibilità.
Nell’Africa Subsahariana abbiamo la malaria, ma pare che le nuove generazioni la ritengano una malattia “boomer”, ormai superata, tanto che non si crede più molto neanche alla profilassi, specie per chi ha sempre pensato che fosse un contraccettivo particolare per non prendere anche altri virus dalle signorine incontrate nelle località turistiche e palesatesi come studentesse.

Malaria demodè, quindi, con cos’altro si può spaventare il turista?
Fino a qualche anno fa c’era lo spauracchio dell’ebola, ma alla fine era chiaro che bisognava andarla a cercare in luoghi remoti tra il Ruwenzori e i ribelli congolesi. Certo, tornare dal Kenya con l’ebola poteva essere un motivo d’orgoglio, quello che ti fa raccontare agli amici: “sono un vero viaggiatore io, mica uno che fa la vacanzetta del menga. Io i luoghi me li vivo nel sangue!”
Poi c’è stata la caccia dei nostri connazionali a diventare il primo paziente con il virus di Marburg, il cui focolaio è tra i gorilla dell’Uganda. Sono aumentate in maniera considerevole le prenotazioni di safari a Ngorongoro, tanto che qualcuno sta pensando di importarlo a Nakuru.
Infine sono arrivate febbri passeggere e forme virali che ormai non fanno più notizia, lo “Zica” per un certo periodo tirava più del pilates, la Dengue è tramontata come il Merengue, e non faceva neanche ballare, mentre ti scioglievi in cagarella.
Cosa si possono inventare oggi i terroristi che preferirebbero farvi passare un inverno a meno venti sulle piste di Cortina o cercare la temperatura mite al calduccio delle colate laviche dell’Etna o del Vesuvio?
Per alcuni la soluzione è tornare al classico: il colera, tifo e paratifo (sempre meno classici del binomio culi-paraculi) e salmonellosi, che fa tornare alla mente i polpettoni andati a male dei refettori delle elementari (saranno mica stati riesumati dal Piano Mattei?).
Oppure puntare sulla moda ancora in auge di sushi e sashimi, che porta a mangiare pesce crudo sulla spiaggia di Watamu, consigliato da un beach-boy che è lì fermo ad aspettare il turista, con una finta borsa frigo (alcuni hanno addirittura le “borse abbattitore”) in cui casualmente si trovano cernie, gamberetti e aragoste. Le aragoste, ovviamente, sono state surgelate e scongelate almeno tre volte, la cernia è stata pescata invece il giorno prima e si è fatto sei ore sotto il sole equatoriale che nemmeno la moglie del ragioniere vicino di cottage nel resort, nonostante abbiano lo stesso colore e lo stesso sguardo intelligente.
I gamberetti vengono da Lamu e dall’aspetto si direbbe che siano arrivati a piedi, per conto loro.
In questo caso la salmonella è quasi un premio e il polpettone una nostalgia canaglia.
La morte per avvelenamento dopo spasmi inenarrabili, lo scioglimento istantaneo in soluzione fecale o l’annegamento volontario oltre la sesta barriera corallina, sarebbero stati un epilogo più consono all’esperienza fatta.
Ai vegani e chi non ama le cruditè, consigliamo invece i venditori ambulanti di gelati artigianali e quelli di ghiaccioli in bustine di plastica. Questi ultimi sono sempre più rari, ma nei vicoli delle old town della costa o o alle fermate dei matatu nei villaggi rurali, si trovano ancora. Ghiaccio ricavato da acqua piovana e coloranti arabi creano un cocktail di batteri che l’epatite stessa ha paura a farsi vedere da quelle parti.

Altrimenti andate sul sicuro con l’acqua di rubinetto. Pur facendo meno danni di quella delle ferrovie dello Stato italiane, bevendola a garganella ancora oggi si possono collezionare tifo, ameba, difterite e giardia, il pezzo più pregiato.
Per chi ama viaggiare con la fantasia malata, si fa strada l’efficace e veloce African Elicobapter, batterio un po’ astronauta, un po’ gastrointestinale e un po’ gastronzo, che plana come un Hercules C130 dritto nello stomaco del mzungu e lo riduce come la strada per l’Amboseli durante la stagione delle piogge.

La sensazione è più o meno quella che provoca la vista di un’ottantenne tedesca in bikini a braccetto con un aitante maasai: nausea, vertigine e in alcuni casi vomito.
Fastidioso è anche il Matatubapter, virus che si prende dalle ascelle stipate in pochi metri quadri ed è in grado di trasformare in mezz’ora il proprio alito nel gas di scarico di un bodaboda, il sudore in avocado marcio e la colorazione della pelle simile agli edifici arabi dietro al vecchio mercato di Malindi.
Non fatevi terrorizzare, per la sfiga c’è l’assicurazione sanitaria (che occorre farla non lo scrive quasi nessuno, altrimenti che notizia gli date da cliccare?), per tutto il resto, bimixin e carta igienica precedentemente pulita.
Già, perché tornare dal Kenya senza nemmeno un batterio vuol dire non aver vissuto pienamente l’equatore, come non esserci mai stati. Che figura si farebbe? Non a caso certi selfie dal Kenya sembrano fatti da chi sta trattenendo non solo il respiro, ma anche qualcos’altro…
Perché il vero mal d’Africa, in fondo, è solo un gran bel mal di pancia.

 

TAGS: umorismoironiavacanzemal' d'Africa

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