Editoriali

TURISMO E NATURA

Privatizzazione di parchi e riserve in Kenya, rischi e opportunità

Si discute sulla proposta del Ministro del Turismo Balala

26-05-2021 di Freddie del Curatolo

Da due settimane negli ambienti safaristici del Kenya ed in quelli più ampi del turismo in generale, si parla molto della proposta del Ministro Najib Balala di privatizzare alcuni (se non tutte) dei parchi e delle riserve nazionali del territorio.
Ad oggi sono 58 i paradisi della natura e della fauna selvatica e della natura, controllati e protetti dal Governo, attraverso l’organizzazione Kenya Wildlife Service, diretta dal Ministero del Turismo. Secondo Balala lo Stato non può arrivare in maniera efficiente a salvaguardarle tutte, non ha abbastanza uomini a disposizione e non vede con ottimismo la possibilità che il suo Governo possa mettere a bilancio fondi per innovazioni tecnologiche (droni, ad esempio) per rafforzare la lotta contro il bracconaggio e in generale essere più presente sulle problematiche di ogni singola riserva.
Così è nata, durante un webinar “green” internazionale, l’idea del Ministro, che dapprima è suonata come un puro disimpegno. Della serie: noi non siamo in grado, affittiamo le riserve a chi avrebbe tutto l’interesse economico a mantenerle in ottimo stato.
Sono state successivamente le proteste delle associazioni di categoria, di tour operators e hoteliers (che contengono anche i proprietari di lodge e campi tendati in savana) a muovere Balala a precisazioni ed esempi.



“Il modello a cui ci riferiamo è quello delle partnership tra pubblico e privato – ha detto – affiancare altre entità al nostro lavoro che non può arrivare dappertutto in maniera efficiente e che ha troppe riserve che non vengono valorizzate. Ad oggi pochissimi parchi rendono l’85% delle entrate per lo Stato, le altre sono da rilanciare. Esternalizzare non significa cedere, ma collaborare. Come ad esempio sta già avvenendo all’interno dello Tsavo Est con la Sheldrick Foundation per quanto riguarda trappole e tagliole per gli animali”.
Ma quale potrebbe essere la formula di un’affitto, di una gestione esterna intelligente che risolva gli endemici problemi della savana in Kenya e allo stesso tempo faccia bene al turismo?
"La cosa peggiore che qualsiasi paese indipendente e organizzato può fare è privatizzare le sue risorse naturali e culturali – è l’allarme del Presidente dell’associazione dell’hospitality della costa, Sam Ikwaye -  Il governo non dovrebbe mai cedere la gestione delle risorse naturali a estranei o a entità private".
Condizionale d’obbligo. Attualmente i drammi più importanti che affliggono parchi e riserve sono due: bracconaggio e conflitti uomo-animali. Per il primo chiaramente il pubblico dovrà rimanere in sella per quanto riguarda la sicurezza, le forze dell’ordine (il KWS è sempre un ente pubblico in quanto costituito da rangers, quindi in pratica soldati con tanto di fucili) mentre il settore privato potrebbe affiancarsi nell’opera di prevenzione, di monitoraggio e per rendere in generale aree e percorsi più sicuri e sorvegliati. Per quanto riguarda il secondo punto, che è il più difficile da affrontare in quanto va di pari passo con la crescita economico-sociale del Paese, l’esempio è quello delle “conservancy” di Masai  Mara e Samburu, dove le comunità locali sono coinvolte nel considerare la fauna come un valore aggiunto e non come una minaccia per il loro territorio, l’agricoltura e l’allevamento.
Resta il fatto che nessuno fa niente per niente, quindi la sfida di Balala e i dubbi degli operatori turistic restano quelli che qualsiasi privato decida di raccogliere la proposta del Governo, vorrà giustamente guadagnarci.
E come potrà farlo? Alzando i prezzi degli ingressi nei parchi? Creando zone “esclusive” all’interno delle riserve?


L’esempio più vicino a noi è quello del Sudafrica, dove alcuni parchi statali sono stati ripartiti in tante piccole riserve gestite da privati e ognuno ha fatto più o meno quello che ha voluto, sempre rispettando una sorta di codice deontologico. E’ il caso della riserva di Sabi Sand, di fianco al celebrato Kruger Park. In alcune delle 23 aree protette (di cui una completamente privata, nel senso che è stata venduta) ci sono strate asfaltate e a margine di certi lodge addirittura la banca e l’ufficio postale. Non crediamo e non speriamo che sia questo a cui propende il Ministro Balala e che proprio da questi presupposti parta la crociata di chi lavora in safari e ospitalità.
Un conto è cedere la gestione dei parchi e delle riserve alle comunità locali, a fondazioni come la Sheldrick (che pure ha un’idea elitaria della gestione dei propri lodge) e altre, o a proprietari di campi che già si distinguono per salvaguardia e collaborazione con la popolazione locale.
Durante una recente visita alle conservancy del Mara North abbiamo potuto notare una cura, un’attenzione e soprattutto un’unità d’intenti che può portare solo benefici. Non che sia tutto rose e fiori, il bracconaggio e la mano dell’uomo disperato sono sempre in agguato. Ma alcune voci che nel dizionario governativo non esistono, come educazione preventiva, sensibilizzazione, ricerca, cura dei particolari, nelle riserve autogestite o “partecipate” sono alla base della conduzione.


“Provate a confrontare la semplice rete stradale, i sistemi idrici per l’abbeveraggio e altri progetti che sono in strutture gestite dal Governo e poi confrontateli con le conservancy private – ha ammesso Balala – per quello stiamo esaminando le possibilità di partenariato pubblico-privato anche attraverso le comunità locali”.
Comunità che dovranno essere sempre al centro di ogni progetto, se si vuole puntare alla sostenibilità a lungo termine.
Se altresì aprire ai privati significasse permettere costruzioni di hotel stile Dubai sul fiume Mara per vedere la migrazione da una vetrata al ventesimo piano mangiando sushi, o trovarsi un autogrill nello Tsavo al posto di Sobo Rock, sarebbe lecito preoccuparsi.
Un altro atroce dubbio che ha sfiorato i pessimisti, è che questo insinuante discorso possa essere collegato con un’altra dichiarazione di alcuni mesi prima dello stesso Balala, che ammetteva di prendere in considerazione la creazione di alcune riserve private di caccia.
“Se continuiamo con gli stessi modelli di prima della pandemia, non credo che saremo in grado di progredire – ha ricordato Balala – servono investimenti nella banda larga, nell’acquisto di mezzi tecnologici e nuove forme di commercio per rilanciare il turismo”.
Per questo, per fugare ogni dubbio, gli operatori del turismo a tutti i livelli raccomandano non la cessione in gestione di parchi e riserve, ma semplicemente l’affitto di zone e strutture al loro interno per migliorarle e arrivare laddove lo Stato non è quasi mai riuscito a fare.

TAGS: turismo kenyasafari kenyariserve kenyaprivatizzazione kenya

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