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Da turista ad africano bianco: il Kenya di "Nelo"

La storia di uno che "in Africa doveva essere di passaggio..."

08-10-2013 di Nello

Il mio nome è Nello, anche ormai sono abituato a sentirlo pronunciato con una "l" sola. Nelo.
Chiamatemi Nelo, che sono anche più contento.
Io in Africa dovevo essere di passaggio.
Uno dei tanti turisti che prenotano una vacanza antistress.
Dovevo dimenticare una fidanzata troppo materialista e pensare che la vita è anche silenzio, natura, viaggio in terre da scoprire. Quell'uscita pomeridiana sulla spiaggia di Malindi, dal villaggio in cui mi sconsigliavano di andarmene in giro da solo, aveva però l'unico scopo di tenermi in allenamento, camminando un po'. In Italia mi piace partecipare a marce e maratone.
Anche per questo il Kenya mi ha sempre affascinato. I migliori mezzofondisti stanno qui. Ma sulla costa non ne trovi. Incroci qualche masai che cammina spedito, ragazzi locali che si fanno il fiato per giocare a pallone. Mentre camminavo, quel pomeriggio sullo spiaggione dorato, mi viene incontro una "mama".
E' una donna che nessuno definirebbe bella.
Ha il viso rugoso e un po' scimmiesco, i capelli corti, pochi denti in bocca e i piedi devastati dalla mancanza di calcio. Mi urla qualcosa con voce molto acuta. Sulle prime avverto un'incomprensibile paura. In fondo cosa mi può fare una donna vecchia e malmessa? Al limite condurmi in un tranello. Effettivamente mi prende per mano, non parla inglese ma sembra capirmi quando le chiedo dove mi sta portando.
Mi indica un tronco spezzato, dove la sabbia è asciutta.
Lì con mio stupore trovo una bambina vestita di poco, con una gamba grondante di sangue.
"A dog" mi dice lei.
Vicino c'è anche il fratellino.
Nello zaino ho una bandana, che uso quando inizio ad avvertire l'inclemenza del sole sulla mia testa calva.
La porto in riva all'oceano, la lavo dal sangue e dalla sabbia.
Le guardo la ferita.
Le lego la bandana al polpaccio inesistente (che strano, qui le donne non hanno i polpacci).
Dobbiamo andare in ospedale. La mama mi fa segno che non hanno soldi.
Andiamo. Fermo un tuk-tuk sulla strada e chiedo a lui dove mi conviene andare per essere sicuro che venga curata bene.
La clinica Tawfiq mi dicono sia pubblica. E' abbastanza ben curata.
Fanno un'iniezione alla bimba e le medicano la ferita.
Chiedo al dottore se hanno l'antirabbica. Dice di no. Chiedo a lui se può tradurre alla mama che le vorrei accompagnare a casa con il tuk-tuk.
Lei dice che non abitano vicino, ma che ci terrebbe molto a farmi visitare il villaggio.
E' una buona occasione, penso, per conoscere l'Africa vera, approfittando di questo favore che mi è venuto spontaneo fare.
Arriviamo al villaggio, qualche chilometro più a nord della spiaggia. Si chiama Kibokoni.
Arriviamo e la mama salta giù dal tuk tuk con insospettabile agilità. Dice subito qualcosa alla gente del villaggetto composto da sei capanne.
Le persone scattano, si organizzano. Un uomo secco e contorto come un ulivo, mi abbraccia e mi dice "karibu", un altro ha già in mano un cocco aperto da offrirmi. La mama mi porta uno sgabellino basso per sedermi. Arriva un giovane e mi racconta la storia della sua famiglia.
Quella donna è la zia, la sorella di sua mamma che è morta qualche anno fa.
Lui è l'unico che porta a casa i soldi, lavorando come giardiniere in una villa di italiani.
Arrivano i bambini, saranno almeno trenta. Tutti parenti, tutte bocche da sfamare.
L'Africa è una ferita ben più grande e profonda di quella di Rehema, la bimba che ho fatto curare. Ti penetra l'anima e se ne rimani colpito così da vicino, o sei completamente insensibile, o non puoi non farti coinvolgere.
Così oggi il turista Nelo è ripartito lasciando il cuore in quel villaggio e non certo in quello turistico, con le sue pur belle piscine e il suo ricco buffet. Il "rafiki" Nelo, da quattro stagioni torna tre mesi all'anno a Kibokoni, dove ha costruito una casetta per la mamma di Rehema, in cui c'è una stanza per lui.
Ogni sera mangia polenta e spinaci con tutti loro e quando arriva ci si mangia uno dei polli che ha fatto allevare.
Fa studiare con i suoi vecchi colleghi di lavoro (e con il suo capo, che gli da i tre mesi di vacanza perché ha capito, e poi lo riassume nonostante i tempi che corrono) nove di quei bambini.
Ho perso una "l", ma ho riacquistato la vita e le ho dato un senso.
Altro che mal d'Africa... 

TAGS: Racconti Kenyaturisti malindivivere kenyatrasferirsi kenya

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