EDITORIALE
07-06-2025 di Freddie del Curatolo
La storia ufficiale degli italiani in Kenya comincia come tante nostre storie non troppo antiche, con una migrazione.
Ma per quanto riguarda quest’angolo d’Africa, i nostri connazionali che dall’inizio del Novecento iniziarono a salpare (perché l’unico mezzo per arrivare in Kenya allora era la nave) verso Mombasa, non erano veri e propri migranti, i loro non erano viaggi della speranza come quelli verso le Americhe. Più che di migrazione, mi piace coniare un neologismo per definire la scelta di molti italiani, non del tutto sprovveduti, spesso con obbiettivi chiari nella loro testa, con professionalità su cui contare e pur nella povertà dell’epoca, non così disperati come chi si ammassava nella terza classe di precari transatlantici.
Questa parola è “DETERMIGRAZIONE”.
Erano determinati ad esplorare l’Africa, aiutare i loro popoli e cristianizzarli i primi missionari, nel caso del Kenya quelli della Consolata di Torino, fondata dal Beato Giuseppe Allamano nel 1901.
Era “determigrazione” quella dei laici al loro seguito: agricoltori, carpentieri, muratori che accettavano la sfida poco comoda e piena di insidie di una grande fetta di continente da costruire.
Lo era quella di cuochi, panettieri, medici, ingegneri che pochi anni dopo partivano per l’Africa Orientale perché sapevano che i coloni britannici avevano bisogno di gente che ci sapeva fare, e più avanti con aziende che già operavano nelle colonie italiane. Ed infine era determigrazione anche quella di proprietari terrieri, nobili benestanti ed intraprendenti avventurieri che sceglievano quella terra poco più che vergine per creare qualcosa di importante.
Tutto ben diverso, in certi sensi “elitario” rispetto alla migrazione del Ventennio verso le colonie italiane, Libia, Somalia ed Eritrea.
Così inizia la nostra storia in Kenya, prima di quella indotta dalla Seconda Guerra Mondiale, che aggiunse appunto ai “determigranti” i militari del Regno d’Italia perdenti della guerra d’Etiopia contro gli inglesi ed altri connazionali fatti prigionieri, anche nello stesso Kenya.
Alcuni di loro sono rimasti, dopo la fine del conflitto. Qualche nostalgico del fascismo che aveva timore di tornare in una Patria che non avrebbe più riconosciuto (con gente al Paese natio che invece l’avrebbe riconosciuto eccome…), qualche mestierante che si era fatto un nome presso l’elite britannica e qualcuno che aveva incontrato l’anima gemella.
Altri sono arrivati subito dopo, circa 2000 per costruire una strada e un campo militare, sempre per conto di Sua Maestà, in mezzo al parco dello Tsavo, proprio nel punto in cui cinquant’anni prima gli operai indiani che costruivano la ferrovia venivano sbranati dai leoni.
Poi c’è la storia più recente, collegata all’indipendenza del Kenya e alla nascita dell’attuale Repubblica. Molti italiani furono chiamati o si offrirono di costruire letteralmente il nuovo Kenya: scuole, chiese, ospedali, uffici pubblici, strade, dighe, impianti di irrigazione.
Alcuni latifondisti e coltivatori di caffè e frutta furono costretti a cedere le loro terre alla nuova classe dirigente a prezzi di favore, ma almeno a differenza dei britannici, non gli furono confiscate e proseguirono la loro avventura africana.
Poi ci fu la determinazione del migrante planetario Luigi Broglio, lo scienziato che s’inventò una stazione spaziale a nord di Malindi. Al suo seguito arrivarono altri ingegneri aerospaziali, tecnici e operai specializzati con le loro famiglie. Molti di loro non hanno fatto più ritorno in Italia e hanno contribuito a formare la nutrita comunità di connazionali a Malindi, che ha dato vita all’esplosione del turismo italiano sulla costa keniana all’inizio degli anni Ottanta. Il resto è storia dei giorni nostri, in cui la “determigrazione” forse non fa più parte del lessico del viaggiatore italiano in Kenya, almeno non nei luoghi di vacanza.
Anzi, fino a qualche anno fa, si poteva riflettere sul doppio significato della parola “evasione”: da una parte la fuga da “mal d’Africa”, la scelta leggera, per quanto coraggiosa, di una vita sognata e ipoteticamente allettante all’equatore, dall’altra quella di chi in Italia lasciava qualcosa di ingombrante, poco edificante: fallimenti individuali o societari, situazioni complicate che era meglio non raccontare. La determigrazione italiana, dal nuovo Millennio in poi, punta altre mete, quelle allettanti per le cosiddette “fughe di cervelli”. Sono loro i nuovi “determigrati”.
In Kenya invece attualmente si vive un nuovo periodo di presenza italiana, in cui anche grazie anche a tanti giovani e alla crescita di questo Paese, non si parla più di migranti, ma di “expat”, di esuli volontari, e non soltanto nel senso di cooperanti. Come i media e la globalizzazione insegnano, tutto si unisce, si amalgama ed assembla. Alla fine le vite africane di imprenditori, liberi professionisti, diplomatici, scienziati, creativi digitali non è tanto diversa. Proprio per questo, forse, qui si può recuperare quello spirito di unità che la nostra cultura, la nostra lingua, la nostra storia ha contribuito a creare altrove all’estero il nostro marchio di fabbrica, il cosiddetto “Made in Italy”.
Recuperare un senso, oltre ogni individualismo a cui questo tempo ci spinge ed in contrapposizione con l'illogica di certe ideologie di ritorno che coniano invece inquietanti e controversi termini che presuppongo ben altro (ad esempio "remigrazione").
Potrebbe essere proprio questo l’obbiettivo finale della “determigrazione”.
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