EDITORIALE
23-05-2020 di Freddie del Curatolo
Spesso si dice che il giuoco del calcio sia un oppio dei popoli e specialmente della povera gente.
Un oppio sano (se si eccettuano i balordi che approfittano delle sfide e dei campanilismi per darsele di santa ragione) e anche relativamente costoso, perché per goderne basta un abbonamento da pochi euro in tv o anche una birretta al bar.
In Kenya, e come non capirli dato che noi italiani siamo stati maestri della dietrologia da “bar sport”, il football è una passione autentica che convoglia migliaia di anime giocose e sognatrici che vedono in chi tira in maniera esemplare due calco ad una sfera di cuoio la rivalsa di una vita spesso a senso unico. Quando arrivai in questo Paese trent’anni fa non c’era neanche la televisione.
I piccoli schermi con tubo catodico erano pochissimi e spesso rinchiusi nelle case dei ricchi locali o dei mzungu. L’unica rete nazionale non trasmetteva le partite dei campionati europei, raramente i mondiali e solo in occasioni particolari la finale dell’allora Coppa dei Campioni.
Del campionato keniano neanche a parlarne: tranne che per lo stadio Nyayo di Nairobi, gli altri campi erano rettangoli in terra battuta con ciuffi d’erba più o meno verdi ed estesi a seconda della stagione. Eppure tutti conoscevano i campioni della Premier League inglese, sulle pareti scrostate dei barbieri o delle taverne campeggiavano poster dei cannonieri del Manchester United o del Liverpool e ognuno, senza pensare che fosse una bestemmia esaltarsi per le compagini della Terra d’Albione che li aveva sottomessi e che aveva regnato per quasi un secolo a casa loro, si sceglieva il team che più lo attraeva. Quelli vincenti, ovviamente.
Quando la televisione iniziò ad arrivare nelle case di tanti e anche un impiegato, un cuoco o un autista facevano le rate per averne uno, magicamente le gesta raccontate dalle radio o dalla carta stampata prendevano forma e i calciatori diventavano semidei in carne ed ossa.
A metà degli anni Novanta anche noi residenti italiani la domenica eravamo attaccati a radio che trasmettevano in onde corte, con ponte in Arabia Saudita e grazie ad amici gentili e ai charter di turisti che arrivavano il lunedì sera, facevamo girare le videocassette della Domenica Sportiva per vedere i gol di Maradona e Platini.
All’inizio del Millennio l’introduzione della pay-tv sudafricana fece sì che ogni pub o locale notturno avessero schermi che proiettavano tutti i match del campionato britannico ma anche di Real Madrid e Barcellona, con l’effetto di un proselitismo che non si fermava alle squadre di Londra, Liverpool o Manchester. Il resto lo facevano i turisti tedeschi e italiani che sulla costa portavano e regalavano le casacche delle loro squadre del cuore, con l’inaspettato divertimento di vedere un muratore indossare la maglietta dell’Atalanta, un barista quella del Borussia Dortmund o un pescatore la divisa dell’Ajax. I taxi bicicletta si chiamavano Klinsmann, Zenga o Donadoni. I beach boys erano indifferentemente Roberto Baggio o Rivaldo. Ma la negritudine e l’orgoglio africano faceva sì che i cimeli più ambiti fossero le maglie con i nomi di Weah, J.J.Okocha, Eto’o e degli altri grandi calciatori del Continente Nero che ce l’avevano fatta. Poi arrivò MacDonald Mariga, l'antilope keniana che, pur giocando manciate di minuti, aveva vinto il Triplete con l'Inter di Mourinho e che fino a pochi mesi fa è stato testimonial dell'oppio sportivo nelle baraccopoli di Nairobi.
Come da iconografia dei paesi del Terzo Mondo, in ogni spiazzo di sabbia o cemento, come alle porte della Savana o davanti ad una discarica, c’era un pallone da far rotolare e una porta dove depositare anche solo un groviglio di stracci che passava tra piedi nudi di giocolieri senza una precisa idea tattica, ma con tanta voglia di lanciare il fiato e la fantasia oltre gli ostacoli di esistenze senza speranza.
Assistere ai campionati del mondo in un bar, specie alle partite che coinvolgevano nazionali africane, era uno spettacolo nello spettacolo.
Se noi italiani siamo tutti commissari tecnici della nazionale (da qui la nostra vocazione per la tuttologia) i keniani sono anche tutti portieri, terzini, massaggiatori e magazzinieri.
Il loro trasporto durante una partita è totale e il loro commento fatto di ululati, sospiri, incitamenti ed imprecazioni vale la miglior telecronaca di Bruno Pizzul o Fabio Caressa.
Negli anni Dieci poi, tra le tante storture amplificate dalla globalizzazione, anche qui sono arrivate le scommesse sportive.
Puntando sui risparmi quasi inesistenti della gente comune, dando la possibilità di giocarsi anche solo 50 centesimi di euro con l’idea di vincerne fino a 10 milioni, sono stati creati mostri di dipendenza e compulsività che hanno portato anche ad episodi di violenza, specie negli slum o nei quartieri poveri in cui azzeccare dieci risultati di fila può davvero significare tornare al sogno americano dello sciuscià che vinceva alla lotteria e spariva dai radar di qualsiasi familiare, amico e creditore. Le cronache keniane hanno più volte dato risalto a chi affittava la moglie per colpa della sconfitta del Manchester City all’ultimo minuto o a chi si era suicidato dopo lo scudetto del Real Madrid.
Da poco più di due mesi a questa parte, con il blocco mondiale del calcio dovuto al Coronavirus, per i keniani non esiste più l’oppio spalmato in vari giorni della settimana e nemmeno il sogno di svoltare una vita grama. Tra i boda-boda in strada o davanti ai chioschi con i disinfettanti non si parla più di Lionel Messi e Cristiano Ronaldo, non ci si scanna più a parole per Mohammed Salah e Kalidou Coulibaly. Che in fondo del Gor Mahia o dei Leopard, le più forti squadre keniane, non è mai fregato quasi niente a nessuno. Forse anche qui qualcuno ha capito che il calcio è soprattutto un gioco e che, come droga, non da grandi crisi d’astinenza. Qualcosa cambierà, o forse no.
Si tornerà a gioire ed arrabbiarsi per un gol mancato, per un infortunio e una papera del portiere.
Oppure, come gli africani sanno fare, spesso istintivamente, si guarderà al pallone come “l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo” e non come la pallina di un’enorme roulette per polli d’allevamento.
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