Editoriali

EDITORIALE DI FREDDIE

Vacanza in Kenya, il mondo rimasto più immutato

Tre decenni di mare e safari, contro l'appiattimento digitale

24-06-2024 di Freddie del Curatolo

Negli anni Novanta, ne pieno fulgore del turismo internazionale in Kenya, quando solo l’Italia sfiorava le centomila presenze all’anno, si diceva che esistevano tre Kenya: quello rurale, tribale e difficile da penetrare, quello della capitale Nairobi, la stanza dei bottoni, ed infine i paradisi delle vacanze, safari e mare.
Il primo comprendeva l’immenso nord, che ti portava verso l’Etiopia, l’Uganda, il Sudan e la Somalia: zone semi-aride da attraversare per arrivare nel nulla dove, in migliaia di chilometri, si menzionava come memorabile solamente il lago Turkana, strisce infinite di confini da evitare, specie quello con la turbolenta anarchia islamica somala, inestricabili foreste popolate da etnie quasi sconosciute, tra ex cannibali e cacciatori di elefanti e montagne non attrezzate né per l’alpinismo, né per arginare certe malattie endemiche. Pastori e contadini si scannavano frequentemente, ma nessuno veniva a saperlo, le spose bambine venivano infibulate, vendute e stuprate, ma nessuno si opponeva e così via.
Il secondo Kenya cresceva e si civilizzava ogni giorno di più. Gli Usa (che allora, ricordate? Erano una potenza, anzi “la” potenza) premevano per un vero sistema multipartitico e democratico, facendo traballare il presidenzialismo ereditato dall’indipendenza, con 24 anni di Jomo Kenyatta e già una quindicina del suo delfino, Daniel Arap Moi. Per cercare di mantenere antichi privilegi, con l’alibi internazionale di scongiurare le guerre tribali, ogni tanto si faceva sparire un politico rampante o un vivace oppositore, si imprigionava un intellettuale e si torturava un ribelle.
Per lavoro o burocrazia, ogni tre o quattro mesi dalla costa mi recavo nella capitale e, a fianco alla patina coloniale, alla confusione dei quartieri popolari e alla pericolosità a ridosso del centro, ogni volta appariva un nuovo grattacielo, una strada allargata, un centro commerciale, un nuovo pezzo di metropoli.


Oggi si parla di enorme divario sociale, osservando il degrado delle baraccopoli ed il lusso moderno di hotel, locali ed uffici, ma è un divario soprattutto economico. Solo tre decenni fa, invece, si passava in meno di un’ora di aereo dai riti di stregoneria e la cessione delle spose vedove al fratello del morto, all’apertura della sede di una multinazionale.
Ma chi scopriva la bellezza del Kenya, più o meno ignorava tutto questo oppure, meglio ancora, lo bollava come l’inevitabile parte selvaggia, crudele, ingiusta se vogliamo, della meraviglia. Il rovescio di una medaglia d’oro, il “lato A” di cui ci si poteva tranquillamente disinteressare, vedendo e godendo di cotanto “lato B”.
I turisti scoprivano la savana che traboccava di animali e dove per ore ed ore di fuoristrada non si scorgevano segni di civiltà, lunghissime spiagge bianche senza un suono o un rumore che non fosse quello dell’oceano, generi di conforto d’ogni sorta a prezzi stracciati, un’accoglienza ilare, ingenua e speranzosa da parte della parte più solare della popolazione, così come amichevole, accomodante e furba da parte di mercanti arabi e indiani che vendevano tutto quel che era possibile smerciare.
C’era talmente tanta libertà che il turismo si è evoluto in maniera fin troppo ingombrante e poco rispettosa dell’ambiente, con hotel e residence come casermoni, tra Nyali e Malindi e senza piani regolatori che preservassero quella preziosa eredità mediorientale dell’Africa swahili armonicamente incastonata nelle scenografie di sabbia, palme e barriera corallina.
 

Cosa rimane, a distanza di più di trent’anni di viaggi in Kenya?
Quasi di colpo, è arrivata l’era digitale della connessione, che ha reso tutto visibile e lo ha avvicinato mentalmente. Il confine con l’Etiopia è ancora a mille chilometri da Nairobi e due giorni di macchina, ma su internet ci si arriva in trenta secondi, a bordo di un drone. L’abbattimento di certe barriere, seppur positivo dal punto di vista della conoscenza, ha però creato lo spiacevole effetto di credere che tutti gli aspetti del Paese, siano ora coesistenti e possano creare situazioni contrastanti ed insicurezza. L’informazione, cavalcando da anni l’onda del sensazionalismo, ha iniziato a convincersi di questo, raccontando storie di conflitti e tensioni anche dove non ce ne sono mai stati.
Il Kenya numero uno, quello vasto e rurale, è ancora tale ma molto più urbanizzato, tanto che il conflitto uomo-animale è cronaca di tutti i giorni, le donne si sono emancipate ed in tantissime sfuggono alla schiavitù ancestrale e si organizzano in comunità, nelle zone “calde” ci si fa la guerra più per una mucca e un telefonino che per questioni etniche e gli indigeni delle foreste sono rimasti in così pochi che non riescono neanche ad organizzare una partita di calcio tra scapoli e nuovi mariti di vedove.
Nairobi è “caput Africa”: una metropoli con tutti i pro e i contro e soprattutto le opportunità delle grandi città mondiali. Con la crescita esponenziale ed il rischio del default dietro l’angolo, con la vita sempre più costretta da spese, regole e digitalizzazione ma con immensi margini di creatività e guadagno per chi ha voglia di fare.


E il turismo? Il rischio dell’era “social” di fare di tutta l’erba una banda larga è quello di pensare che il Kenya sia solo uno e che comprenda tutti i suoi antichi mondi. Invece, alla fine, i luoghi che sono cambiati meno e sono rimasti distaccati dal resto del paese che si racconta, sono proprio le destinazioni turistiche: laddove un beach boy è più “influencer” di un politico da 2 milioni di “like”, dove lei è ancora “diversa da tutte le altre” e non ha intenzione di cambiare, dove il mango è ancora incredibilmente dolce e profumato e se vai sulla spiaggia il pescatore scende dalla barca e ti vende qualcosa di fantastico che guizza ancora, dove nonostante convengano di più gli abbonamenti mensili a tutto, si continua a vivere alla giornata.
Dove la sicurezza e le fregature per i turisti sono sempre direttamente proporzionali alla loro faciloneria ed incoscienza e dove alla fine la natura, pur presa a schiaffi con mani di cemento e derubata con le armi invincibili della corruzione, riesce sempre ad incantare.
In conclusione, per i pochissimi che sono arrivati fino a qui, l’excursus è per spiegare a chi ci scrive preoccupato per i nuovi moti sociali e le proteste di piazza dei giovani, che se c’è una cosa che non è cambiata in tanti anni in Kenya, mentre il mondo ha cambiato i connotati e quasi un’era geologica, è la vacanza nei suoi luoghi di sogno.

“E potevi dircelo tranquillamente in due righe, no?” (cit.)
Scusatemi, svolgo il mestiere di raccontare il Kenya su base volontaria, fatemi almeno divertire un po’…

TAGS: vacanzaturismocambiamentidigitaleruraleNairobi

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