Sono giorni talmente tristi e disperati che il cronista che abita dentro di me non ha parole, non riesce e non avrebbe motivo per scrivere nulla.
Non ero preparato.
Non potevo, non volevo e non dovevo essere preparato.
L’incidente stradale che ha strappato alla vita Edoardo Sbianchi è avvenuto la notte del 14 settembre a Milano, ma solo ora trovo la forza di parlare di lui.
Edoardo non era solo un giovane amico conosciuto in Kenya ed il figlio di due persone a cui voglio bene.
Edoardo era molto di più, era la parte buona del futuro.
E il futuro, specie quando te lo immagini radioso, non si scrive, si sogna.
Io ho sognato più di una volta di te e dei tuoi anni a venire, come alfiere della nuova generazione di italiani in Kenya, come quando nei tuoi ingenui ma già cazzuti 15 anni mi dicesti che da grande ti sarebbe piaciuto diventare Ambasciatore d’Italia in Kenya.
Ti pensavo dopo ogni partita del Milan, come tu mi scrivevi ogni tanto dopo una del Genoa.
Oggi saremmo su whatsapp a discutere del tendine d’achille di Ibrahimovic, di Liverpool e di qualche portiere di belle speranze, come te.
Spesso mi capita di dover scrivere di connazionali che ci lasciano.
In questi due ultimi disgraziati anni è accaduto fin troppe volte.
Spesso, e nonostante il dispiacere sono solito pensare “per fortuna”, si tratta di persone anziane, di storici italiani che hanno avuto a che fare con il Kenya, ci vivevano o lo frequentavano.
Essendone coinvolto da più di trent’anni, molte volte mi sono trovato a scrivere con le lacrime che bagnavano i tasti, a ricordare amici, conoscenti, compagni di un percorso con tante sfumature simili.
Ieri ad esempio, ricorrevano i due anni dalla scomparsa del caro amico Mario “Max” Aquilino, che aveva la mia età.
Tu no, Edo.
Tu non eri considerato e non lo sei neanche adesso mentre sono qui a ripensarti a Malindi.
Non solo perché avevi vent’anni, e la tua scomparsa già di per sé è un furto, una bastardata, un’ingiustizia nell’ingiustizia, ma perché per quanto ti ho conosciuto eri un ragazzo splendido, così diverso dalla maggior parte dei tuoi coetanei.
Lo eri perché sapevi di essere fortunato, di avere carisma e possibilità, sapevi che per avverare molti tuoi sogni sarebbe bastato (e non è poco, ma è tanto esserne consci) darti da fare.
La speranza di un mondo che non si butta via, non annega nell’ignavia lasciando che siano gli aridi, i disonesti, i frustrati e i malati di mente a mandarlo alla rottamazione, quella speranza ha il tuo sorriso. Uso il presente, perché quel sorriso ce l’ho davanti, resta con me, con Maddy, con i tuoi genitori Fabio e Francesca e dovrà essere la guida del tuo fratellino Lupo.
E’ lo stesso sorriso che avevi quando consegnasti guanti e scarpe ai ragazzini della scuola calcio che sosteniamo. E quel giorno non ti sei limitato ad accompagnarci per conoscere una realtà lontana anni luce da te, anche se legata dal filo comune del gioco, della leggerezza, della felicità.
Hai indossato i guantoni e ti sei messo in porta, hai incitato dall’inizio alla fine i tuoi compagni occasionali a difendere bene, a scattare in attacco quando gli lanciavi il pallone, ad essere uniti e compatti, ad andare tutti insieme, con caparbietà e cognizione di causa, ma senza mai perdere il gusto del divertimento, verso il futuro.
Di questo voglio parlare, quando parlo di te, Edoardo.
Del tuo sorriso, di un gol, del futuro.