DENTRO IL KENYA
31-03-2025 di Freddie del Curatolo
“Vestire gli ignudi”, diceva il noto commediografo, che forse nella sua Sicilia vedeva anche un po’ d’Africa. Ma nel regno delle verità più vere del mondo che cambiano ogni minuto (e questo lo ricordava il grande scrittore americano), la gente comune si veste proprio come vive: in maniera essenziale, di seconda mano, a volte lacera e consunta, ma anche come capita, a basso costo e badando al sodo, senza tanti grilli per la testa.
Il fulcro di questo stile di vita, nelle regioni in cui si parla la lingua swahili, si chiama “Mitumba”.
Con questo nome si indicano tutti gli indumenti usati che vengono letteralmente catapultati sulle bancarelle dei mercati (le cosidette “kibanda”) senza distinzione di tipologia, di marca o materiale.
Secondo una ricerca pubblicata sui media continentali nei giorni scorsi, il Kenya è il Paese africano che importa più tessuti e capi d’abbigliamento di seconda mano, a dispetto dei ventilati programmi del governo che non solo avrebbero voluto abolirne l’importazione, ma che puntavano (e puntano) sulla produzione interna di vestiario per i kenioti. Come se essere competitivi con il gigante cinese fosse facile, e sappiamo bene non lo è per nessuno nemmeno in occidente.
Nel frattempo, più della Nigeria, più del Ghana e dell’Uganda, largo alla mitumba, che arriva dall’estero in balle da un quintale l’una, che vengono acquistate da “cartelli” di quella che potremmo chiamare “grande distribuzione africana”. Così, a scatola chiusa, senza nemmeno provare a fare una cernita, a cercare la perla tra le pietre spurie.
Mosche sul miele. Quando le balle, inguainate in corde e lacci, vengono liberate ed esplodono in tutta la loro morbida ed eterogenea abbondanza, nei mercati delle principali città del Kenya, i piccoli mercanti, i grossi ambulanti, i multiproprietari di baracche e loculi nelle località minori e nei villaggi rurali le assaltano e se ne appropriano con frenesia vitale, alternando la visione di ciò che è buono, un affare, al colpo di fortuna di non trovarsi un maglione tarmato o un pantalone con l’interno coscia troppo liso.
Un tanto al kilo, da rivendere a propria volta alla stessa maniera: accatastate al pubblico ludibrio.
E qui entra in scena il grande teatro, la commedia umana dell’allegra sopravvivenza che avrebbe sorpreso ed affascinato anche Pirandello. In prima fila, donne opulente che con un braccio scavano nella coltre di indumenti mentre con l’altro tengono ben saldo il bimbo che scalpita attratto dalla bancarella dei giocattoli di plastica, con l’ultimo nato che dorme imperturbabile insaccato in un pareo appeso al loro collo.
Poi si fanno largo anziane contadine dalle ossa che guardano ovunque e gli occhi velati da inconsapevoli cataratte, che riescono a scorgere la veste buona per il giorno e una tuta per scacciare le zanzare nel buio illuminato a paraffina della capanna. Intorno sono venditori che urlano il prezzo fisso ed invitano tutti a partecipare al banchetto, mentre altri si stravaccano e lasciano fare alle voci registrate “karibia customer” che escono da radioline gracchianti. C’è chi appende i capi migliori su improvvisati e traballanti stecchi, altri li sventolano come bandiere per l’orgoglio di giornata. Quello delle mitumba è un mondo assolutamente africano che una volta nella vita vale la pena vedere.
Un mondo in cui nessuno è vittima e nessuno è protagonista, dove i cattivi hanno già fatto il loro danno e si fanno da parte e le briciole danzano insieme a chi le sa riconoscere e ringraziare di tenere in vita loro e l’intero baraccone.
A compendio di quel che avete appena letto, il nostro “resident songwriter” Re Mida con i suoi Creek, ha scritto questa “instant song” sul mito della mitumba.
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