STORIE
13-12-2020 di Freddie del Curatolo
In Italia ne abbiamo avuti centinaia, ognuno con la sua storia, la sua famiglia, la dedizione per il suo lavoro. Anche il Kenya ha i suoi simboli della lotta al Covid-19.
Ieri uno degli “angeli” delle corsie, che io preferisco chiamare “doppi umani”, perché al sostantivo uniscono l’aggettivo, se n’è andato sconfitto proprio dalla malattia che non solo combatteva e curava, ma di cui strenuamente sensibilizzava sulla pericolosità e sull’alto potenziale contagioso.
Wycliffe Alumasa non era solo un’infermiere all’ospedale della Contea di Kakamega, ma anche un paladino dell’applicazione delle regole, dell’utilizzo delle mascherine e del rispetto della persona tenendo le distanze.
Ogni mattina, prima di recarsi al lavoro, girava con la sua auto l’intera cittadina e chiedeva a chi non indossava la maschera perché lo facesse, dopodiché si qualificava e spiegava il suo punto di vista con professionalità.
Alla fine, anche grazie all’aiuto di sponsor, donava la mascherina all’ignaro o miscredente.
Poi si recava in polizia e diceva: “io ne ho beccati un centinaio, e voi?”.
E faceva report sulle zone a maggior rischio, quelle con meno rispetto e via dicendo.
Alla fine gli stessi poliziotti lo seguivano e utilizzavano il suo metodo della sensibilizzazione, prima della repressione e punizione.
Era ormai famoso in città Wycliffe.
Aveva organizzato una grossa distribuzione ai Boda Boda e il suo meccanico ricorda che quando portò la sua automobile a riparare, gli chiese di non toccare l’interno del veicolo e neanche il motore se prima non avesse indossato una mascherina omologata.
Così faceva, raccontano gli amici, con altri negozianti. Non acquistava né salutava nessuno che non indossasse la mascherina.
Fatalmente, dopo nove mesi di lavoro ininterrotto a fianco dei malati di Coronavirus, Wycliffe è risultato positivo e si è messo in isolamento a casa ma in una sola settimana le sue condizioni sono visibilmente peggiorate e quando nei giorni scorsi lo hanno portato in ospedale non c’era più niente da fare. “Sapevo già che sarebbe stato un miracolo se si fosse ripreso da quelle condizioni” ha dichiarato la moglie Veronica alla stampa.
Come lui tanti altri infermieri e medici in Kenya sono ancora impegnati a lottare contro un virus che, anche se meno terribile che in tanti altri Paesi di Europa e Americhe, qui in Kenya si aggiunge a tante altre patologie presenti da sempre e le cui cure sono affidate a strutture ospedaliere che solo ora si cerca di migliorare, con tantissimi problemi. Tra chi minaccia scioperi, chi si ammala e deve restare a casa e tanti altri operatori sanitari che vengono assunti da strutture private inaccessibili alla gente comune, si spera che altri seguano l’esempio lasciato da Alumasa: prevenire in Africa può essere molto più utile e più possibile che curare.
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