LIBRI
18-11-2016 di Freddie del Curatolo
Ci sono diari di viaggio che si leggono come atlanti geografici, altri noiosi come filmini delle vacanze altrui. Ci sono romanzi a tappe travestiti da manuali intergalattici per autostoppisti ma che in realtà sono autobiografie belle, buone e utili a malapena in famiglia.
Con l’Africa, però, difficilmente puoi barare e per questo scriverne e scrivere di sé a zonzo per questo universo restando credibili a sé stessi e agli altri è impresa ardua.
In Africa non puoi voltare lo sguardo, ma nello stesso tempo non puoi ignorare la bellezza che ti fa sentire un felice egoista, un privilegiato di passaggio.
Chi vuole raccontare l’Africa non può ignorare la lezione di Kapuscinski, ma avrà bisogno anche del cinismo di Hemingway, della sensibilità snob di Karen Blixen, della scientifica incoscienza di Felice Benuzzi, l’alpinista che fuggì dal campo dei prigionieri italiani durante la seconda guerra mondiale solo per la libidine di scalare il Monte Kenya, per poi fare ritorno tra le braccia dei carcerieri britannici con un taccuino indimenticabile che diventerà “No picnic on Mount Kenya”, oggetto di culto non solo per scalatori.
Senza scomodare icone e sollevare troppa polvere dagli scaffali, sul finire del 2016 ci capita tra le mani “Africa, Maisha Marefu” (Edizioni TGbook, pagg. 223, € 15), ovvero appunti di viaggio tra Etiopia, Kenya e Tanzania del brianzolo Marco Novati.
Documentarista, amante della montagna, esploratore, Novati ha descritto e filmato la Patagonia, si è bevuto più di mezzo Sudamerica e ha conosciuto le lusinghe dell’Oriente.
Ma come molti, è rimasto stregato dall’Africa equatoriale e dal “continente dove le albe e i tramonti si colorano di emozioni e sensazioni dell’anima, dove gli animali vivono allo stato brado nella savana, dove le regole della vita sono ancora stabilite dalla Natura, laddove è nato l’uomo e dove l’uomo morirà”.
Il Mal d’Africa di Novati è il bisogno di calarsi in una realtà vicina al proprio sentire, perché come scrive nella prefazione l’artista Bice Ferraresi (altra ammalata di Kenya) “per il nostro scrittore viaggiare significa riattingere a quei valori dai quali spesso ci si allontana a causa della nostra frenetica quotidianità”.
E allora in questo tuffo in un mondo salvifico, in questo riemergere dall’acqua all’aria, si leggono tutte d’un fiato l’umanità tra gli animali del Maasai Mara e del Serengeti, la sfiancante ascesa sulla vetta del Kilimanjaro e quella epica del Monte Kenya, l’abbandono senza tempo dell’arcipelago di Lamu e la summa di tutto questo nella calda, avvolgente, ingenua e paradisiaca entropia di Watamu.
Il tutto condito da un senso forte dell’amicizia, che non ha bisogno di troppe parole ed è interpretato magistralmente dall’amico Pino, uno sguardo inevitabile al sociale (e come potrebbe essere altrimenti, quando si entra in uno slum di Nairobi o in una comunità di recupero a Gede?) e un pizzico di nostalgia di un mondo libero di cui forse solo in Africa si sente ancora l’eco.
Marco Novati, con passione, ci fa salire a bordo del suo romanzo, che a volte è un matatu zeppo di gente colorata, a volte un asino ubbidiente, poi una Land Rover in safari, ma spesso solo un paio di scarponi e un bastone.
Pagine come chilometri, segnati dalle stesse emozioni che in una piovosa giornata italiana lo hanno portato a vivere l’avventura che non solo ha avuto la voglia e il coraggio di vivere, ma che ha saputo descrivere così bene.
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