INVENZIONI
19-06-2024 di Freddie del Curatolo
Uno dei motivi per cui l’Africa è il continente che può salvare il mondo, è che quasi tutti i suoi abitanti hanno da sempre a che fare con la sopravvivenza e ciò che fanno e che creano va in questa direzione.
Spesso dal bisogno immediato, dall’esigenza primaria se non addirittura dalla questione di vita o di morte, scaturiscono le invenzioni migliori.
Da questi presupposti e dall’intelligenza intuitiva di una ragazza keniana, parte questa storia. Beth Koigi, studentessa universitaria (di quelle vere…) di Nairobi, a 21 ha intrapreso una ricerca, studiando come produrre un efficace ed economico filtro per l’acqua marrone e contaminata di casa sua. Dopo aver progettato il filtro ed essersi resa conto della sua efficacia, si è fatta finanziare la sua costruzione per distribuirne più di 5000 agli studenti del college.
Beth avrebbe potuto cullarsi sugli allori dell’invenzione: brevettare e vendere per anni il filtro alla portata delle tasche dei kenioti.
No. Ha deciso di guardare oltre, ponendosi una domanda: “Ma se finissimo l’acqua? Anche quella marrone? I filtri servirebbero a ben poco. Come farà la gente povera ad accedere ad un bene vitale?”.
La ricercatrice è partita da una considerazione semplice che nell’ambiente del Kenya è ancora più lampante: in natura tutto si trasforma, niente viene perduto.
Quindi dove va a finire l’acqua che evapora quando fa molto caldo?
Lo sappiamo tutti, finisce nell’aria. C’è più acqua lì che nei laghi e nei fiumi!
Così in cinque anni, partendo da materiali idrofili e disidratanti, silice, carbone attivo ed infine pannelli solari, Beth Koigi ha creato il primo sistema di acqua potabile che trasforma (o meglio, riconverte) l’aria in acqua da bere!
Lo ha chiamato “Majik”, giocando sulla parola “Maji” che in swahili significa proprio “acqua”, ma la sua non è assolutamente una magia. Per Beth, la K finale infatti sta per “Kuvana”, ovvero coltivare in swahili. Già, coltivare l’aria per raccogliere l’acqua. Ci voleva un africano, per arrivarci…
Ora Beth ha trovato due partner donne per implementare il progetto e renderlo accessibile a tutti, che è il suo vero sogno, lontano anni luce da chi da sempre finge di risolvere per sempre il problema della fame e della sete nel mondo.
La scienziata americana Anastasia Kashenko e l’economista inglese Clare Sewell.
Con loro ha perfezionato l’impianto ad osmosi inversa, il processo del carbone attivo per rendere potabile l’acqua e l’aggiunta di minerali essenziali per mantenerla e renderla piacevole.
Dopo aver vinto numerosi premi per le innovazioni, il sistema “Majik Water” è stato testato con successo presso il centro NASA in California con lo stesso livello di umidità del Kenya (53%).
L’obbiettivo di Beth e delle sue socie è avere in mano una soluzione concreta all’accesso di acqua potabile non solo in Africa: una “macchina da casa” potrebbe produrre 500 litri al giorno, mentre un’apparecchiatura complessa potrebbe arrivare a 200 mila litri d’acqua prodotti al giorno, ovvero un intero villaggio o caseggiato potrebbe gestire il proprio fabbisogno. Questo vale anche per alcune città africane ed asiatiche che iniziano, in certe stagioni dell’anno, a fare i conti con il razionamento. Personalmente, lo abbiamo sperimentato a Città del Capo, in Sudafrica.
Secondo i dati dell’UNICEF, nel 2024, due miliardi di persone nel mondo non hanno ancora accesso all’acqua potabile. In Kenya quasi il 40% della popolazione. L’invenzione di Beth è stata citata anche nel documentario “Brave Blue World” con Matt Damon, approdato su Netflix.
Ora vediamo come reagiranno i gestori del potere internazionali, per i quali anche l’ambiente, come la povertà e le guerre, sono più che altro occasioni, ed affari.
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