Reportage

REPORTAGE

Ukunda, fascino crudo e reale dietro le quinte di Diani

Passaggio nella vivace cittadina della costa sud keniana

26-08-2021 di Freddie del Curatolo

E’ come in uno spettacolare allestimento teatrale: dietro le quinte di una scenografia memorabile, capace di attrarre l’occhio e stregare il cuore con luci e colori avvolgenti, coreografie umane e animali che paiono sovrannaturali, c’è la grande opera nascosta degli addetti ai lavori, della manovalanza.
Ci sono gli ingranaggi che fanno muovere ogni struttura e cambiano il paesaggio, mani e corde che aprono il sipario su nuove storie, materiali per ogni scena e costruzione.
Così avviene nelle località turistiche del Kenya, dove allo splendore della cartolina si aggiunge il fascino reale, crudo, penetrante del suo risvolto.
Alle spalle della meravigliosa Diani Beach, immersa nella pace dell’infinita spiaggia bianca protetta dalla fitta (sempre meno, sic!) vegetazione equatoriale, sorge la cittadina di Ukunda.
Viva, brulicante, magari incasinata ma mai frenetica, perché è pur sempre una realtà del sud del Kenya. Ukunda si snoda lungo l’arteria principale che è la “highway” che porta verso il confine con la Tanzania. Quasi tutte le attività commerciali si riversano sullo stradone, dai supermercati ai ferramenta, dalle pompe di benzina a farmacie e negozi di elettronica.
Ma l’occhio, come spesso accade in Africa, è rapito dalle multicromie del mercato. I colori sgargianti della frutta e della verdura che arrivano dalle fertili vallate di Kwale e delle colline ai piedi delle Shimba Hills si confondono con l’utensileria degli artigiani locali e con suppellettili di plastica cinese, le balle di stracci più o meno indossabili delle “mitumba” si accatastano in maniera diseguale eppure armonica sulle bancarelle di legno che, viste da vicino hanno le loro differenze: c’è chi è specializzato in biancheria intima, chi in abiti maschili, chi vende solo gonne o pantaloni.
E’ tutto un vociare di avventori mescolato a slogan urlati dai venditori, profumo di mango maturato al sole e odore intenso di pesce affumicato.
A Ukunda si mangia.
Anche in questi tempi di crisi, rispetto a molte altre cittadine da noi visitate sulla costa del Kenya, lo street food, concentrato in una delle poche strade che s’infilano verso i quartieri meno nobili, propone indistintamente polli alla griglia e pesci carnosi fritti, patatine sfrigolanti in profonde padelle colme d’olio e cassava bollita e ripassata sulla carbonella. Piccole baracche che s’aggrappano ad una dignità difficile da sostenere promettono succhi freschi di ananas e tamarindo, anziane donne islamiche preparano cofane di fagioli al cocco e impilano chapati.
L’enorme mensa a cielo aperto della manovalanza ai margini del set cinematografico per turisti, è uno spettacolo altrettanto magico e interattivo, basta voler partecipare e saper osservare.
Si incontrano comparse di cui si possono immaginare le storie di vita al limite dello sprofondo umano o del più alto lirismo del cuore. I matti del villaggio in tenuta da guerriglia o con mitragliatori immaginari costruiti con incredibile ardimento e arte del riciclo, gli anziani che transitano con impassibile flemma in mezzo alla società che muta alla velocità dei fuoristrada che sorpassano gli autoarticolati fumanti e i tuktuk scodinzolanti carichi di ogni cosa, da un’intera scolaresca all’intero arredamento di una casa.
Non finisce mai, Ukunda, sono chilometri in parallelo con la bianca spiaggia dello spettacolo più famoso e ambito per il pubblico pagante. Dopo il mercato, sfilano meccanici, blocchi di corallo, fabbri con le loro fiamme ossidriche, parrucchieri con donne sedute da ore a rifarsi le trecce posticce e tante altre visioni che quando tutto è finito, accanto al naturale senso di liberazione di ritrovare la pace della natura africana ai bordi della strada, resta negli occhi tanta di quell’umanità da farti pensare che, nel bene e nel male, se lo vorrai, se avrai mani e cuore da tendere al prossimo o finanche solo un sorriso e un piatto di grano da condividere, non sarai mai solo.  
 

 

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