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I motivi dell'invasione di cammelli in Kenya

Perché i pastori, anche a sud del Paese, cambiano abitudini

17-02-2021 di Freddie del Curatolo

Fino a qualche decina d’anni fa in Kenya non c’erano tantissimi cammelli.
Le zone in cui venivano utilizzati dai pastori locali erano soprattutto quelle semi-aride che vanno da Marsabit al lago Turkana, il deserto del Chalbi e la striscia di confine con la Somalia.
I Borana e i Gabra, in particolare, hanno sempre gestito mandrie di mucche e di cammelli. La loro resistenza ai climi più torridi e la possibilità di offrire latte molto nutriente e, all’occorrenza, carne, ne hanno fatto una risorsa importante. Senza contare che, come gli asini, i cammelli sono veicoli da trasporto capaci di caricare quintali.
Nelle loro zone vi sono mercati di compravendita di cammelli e l’importante Festival del Cammello di Maralal, con premi ai migliori allevatori ed esemplari e competizioni che, in tempi di turismo, attiravano migliaia di visitatori per l’unicità dell’evento in tutta l’Africa Subsahariana.
Le cose ultimamente sono cambiate: il cambiamento climatico e la minore prevedibilità dei fenomeni atmosferici hanno modificato le abitudini delle tribù seminomadi.
La siccità a cavallo tra il 2005 e il 2006, inoltre, ha fatto sì che le mandrie di bovini, capre e pecore dei pastori delle regioni del Nord del Kenya diminuissero di un terzo in un solo anno, portando alla fame gran parte della popolazione che conta solo sull’allevamento per sopravvivere.
L’aumento esponenziale dell’allevamento di cammelli è così spiegato e piano piano anche in altre zone del Paese altre tribù, come gli Orma e piccoli ceppi di origine somala, hanno iniziato a fare lo stesso. I cammelli sono stati importati in larga parte dai somali negli anni Ottanta, e da una decina d’anni il commercio ha avuto un nuovo impulso.
L’utilizzo della carne di cammello nelle macellerie, più ancora di quella d’asino che è andata a supplire alla mancanza di carne bovina e all’aumento dei prezzi di quella di capra e agnello, ha convinto molti pastori anche del sud del Kenya a convertire parte del loro bestiame.
Piano piano si sono resi conto che i cammelli hanno bisogno di meno acqua per vivere, mangiano una più ampia varietà di vegetazione e producono fino a sei volte più latte delle specie bovine indigene. In soli dieci anni, dal 1999 al 2009, la popolazione di cammelli in Kenya è passata da 800.000 a 3 milioni. Oggi si calcola che gli esemplari siano già raddoppiati rispetto a quelle stime.
Non è quindi un caso che appena fuori Malindi, sulla strada asfaltata che conduce al parco nazionale dello Tsavo, si vedano costantemente grosse mandrie di cammelli, accompagnate da pastori di origine somala, nel loro spostamento dalle regioni del Tana River e da quelle più vicine alla Somalia, come Hola e Garissa, fino ai mercati della Rift Valley, dove venderli, soprattutto per la macellazione.
La riproduzione dei cammelli e la loro diffusione in altre zone del Kenya, ha creato sicuramente nuovi introiti e migliorato la sicurezza alimentare, ma non viene ancora supportata da nessun programma del Governo atto a garantire un processo a lunga scadenza, con condizioni di sicurezza e adattabiità, favorendo la salute degli animali e la loro migliore resa, attivando canali per il commercio del latte e regolamentando quello della carne, se necessario. Specialmente per evitare epidemie e malattie che possono essere trasmesse anche al bestiame tradizionale.
Come sempre il rischio è che qualcuno arrivi ad interessarsi del fenomeno solo quando ci si potrà “mangiare” sopra e non per la reale necessità di prendere contromisure e la capacità di saper guardare avanti verso un futuro sostenibile che farebbe il bene di tutti.
In ogni caso questo segno dei tempi che cambiano conferma che l’uomo, a qualsiasi latitudine, quando deve attivare i propri “anticorpi” per la sopravvivenza, è costretto ad utilizzare metodi ancestrali e faticosi come le migrazioni. A volte anche all’interno delle stesse terre natie, dove si potrebbe agire per evitare che piano piano questi cambiamenti di lavoro e di stile di vita non debbano trasformarsi in migrazioni ancor più drastiche, di persone che lasciano i loro luoghi spinti dall’istinto di sopravvivenza e dal sogno di una vita migliore.

TAGS: cammelli kenyapastori kenyacommercio kenya

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