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03-05-2023 di Freddie del Curatolo
Il governo del Kenya ha deciso di fare la guerra ad una piaga antica quasi quanto il mondo, che fa spesso pensare a quanto la celebrata “mela” del diavolo ad Adamo non sia che una grande metafora.
La fermentazione artigianale di qualsiasi prodotto zuccherino con l’alcol, così come altri tipi di droghe o prodotti nocivi che danneggiano il cervello e danno dipendenza, oggi in Kenya non è più solo una tradizione ancestrale, ma ha inglobato in sé altre deviazioni della società contemporanea, come il contrabbando, la mafia, lo sfruttamento delle donne e dei minori, la miseria nelle sue forme più aberranti.
Stiamo parlando della Chang’aa, un distillato originariamente ricavato da miglio e sorgo che viene prodotto appunto “in casa” e che, secondo le stime dell’Autorità nazionale per la campagna contro l'abuso di alcol e droghe, distrugge o segna in maniera quasi indelebile la vita di oltre 400 mila persone all’anno nel paese.
Il Kenya, inutile negarlo, è una nazione ad alto tasso di alcolisti. Si calcola che il 13% degli abitanti ne siano consumatori abituali. E non si tratta solo dell’arcinota birra Tusker o dei superalcolici occidentali il cui abuso appartiene a pochi eletti, ma soprattutto di liquori a basso costo e per questo più chimici che ottenuti con procedimenti naturali e dei fatidici distillati artigianali. Se sulla costa è il vino di palma (mnazi) a spopolare, al centro e al nord del paese è appunto la chang’aa.
Negli slum di Nairobi, particolarmente a Kibera e Korogocho, la chiamano “Kill me fast” (uccidimi in fretta), si calcola che oltre 2 milioni e mezzo di persone in Kenya ne siano dipendenti e che uccida direttamente o negli anni una buona parte di loro. L’età media del primo bicchiere di Chang’aa per chi prenderà la via dell’abuso e della dipendenza, è di 9 anni. Se un tempo la chiamavano “birra” e nelle regioni dei Kikuyu intorno al monte Kenya la servivano dentro anfore ricavate dalle zucche vuote, oggi il fermentato di sorgo e miglio viene trattato spesso con metanolo ed altri acidi, compreso quello delle batterie delle automobili, se non addirittura con la benzina, oltre che essere filtrato anche attraverso assorbenti femminili usati ed altre sporcizie spesso recuperate nelle discariche.
Ogni anno le cronache dei quotidiani si riempono di notizie drammatiche su morti o cecità di massa dopo matrimoni o funerali in cui è circolata della Chang’aa “difettosa”.
Purtroppo però dal 2010, su pressione evidente di “signorie” che lucrano sul suo commercio, la Chang’aa se prodotta nel rispetto delle norme stabilite, è legale.
Da allora si sono moltiplicati non solo i produttori (quasi sempre donne, anche riunite in sorta di cooperative) ma anche i locali pubblici in cui si vende la chang’aa e che ospitano nottetempo popoli di zombie senza speranza. E’ il prezzo di un bicchiere della grappa popolare keniana ad attirare i suoi consumatori: 12 scellini (meno di dieci centesimi di euro) al bicchiere. Molto più potente di una vodka locale, che costa dieci volte tanto.
Ma che rovina molto meno. L’approccio abituale alla Chang’aa infatti porta in breve tempo alla perdita delle funzioni corporee e, a lungo termine, a forme di cecità e a problemi mentali che fanno sì che i consumatori assidui perdano spesso il lavoro.
Ecco quindi che il nuovo governo ha iniziato a fare la guerra ai produttori illegali di questa bomba nazionale. Solo ieri nella Rift Valley sono state identificate 13 mila persone, tra produttori e distributori del superalcolico maledetto. Molti sono i centri di riabilitazione sorti negli ultimi tempi per cercare di recuperare chi è già caduto nei fumi deleteri della Chang’aa e del “kangara”, il mosto che rimane infondo ai barili in cui viene conservata, che sciacquato con altro alcol, ucciderebbe un astemio o anche solo un uomo occidentale in un solo giorno.
Certo, la Chang’aa è la punta di un iceberg da cui è bene incominciare, ma il grave problema di un paese che ha conosciuto tardi il valore dei soldi e la cultura dell’avere tutto e subito, è sempre più evidente e porta alla mente troppo spesso, con i dovuti distinguo, la tristezza dei pellerossa americani e degli aborigeni australiani.
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