L'angolo di Freddie

STORIE

Viva il calcio e il Genoa in Kenya

Esternazioni di un "doppio malato" felice

08-10-2009 di Freddie del Curatolo

Non è casuale che le mie “malattie” più gravi siano l’Africa e il Genoa.
Parliamo infatti del Continente “culla dell’umanità” e della squadra “culla della civiltà” pallonara italiana. Se è vero che il primo ominide è apparso al confine tra Kenya ed Etiopia, è altrettanto vero che il primo “homo pedatorius” italiano è apparso sotto la Lanterna della “Superba”, nel lontano 1893. Il Kenya fu civilizzato dagli inglesi, che furono anche i fondatori della squadra rossoblu.
Senza contare che il tifo per una compagine calcistica è di per sé una sindrome, come certamente lo è quel sentimento che comunemente chiamiamo “Mal d’Africa”. Chi è genoano lo sa: non si tratta soltanto dell’affezione a una maglia, della sana competizione con altri team di altre città, del piacere di ritrovarsi e scoprirsi uguali nelle manifestazioni di gioia e sconforto. Adorare il Grifone è qualcosa di più simile a una fede che diventa stile di vita. Lo sapeva bene Vittorio Gassman, grande genoano, che coniò l’ammonimento: “Già sei nato genoano, vorrai mica anche vincere?”, ne erano al corrente anche Sandro Pertini (che, presidente di tutti i tifosi italiani, sull’aereo che riportava in patria la Nazionale campione del mondo del 1982, disse ai giornalisti: “sono partigiano, tifoso del Genoa e degli Azzurri”) e Fabrizio De Andrè, che accanto ai versi immortali delle sue poesie in musica, su foglietti precari o pagine spiegazzate di quaderno, immaginava la formazione domenicale del Grifone con nomi e posizioni in campo.
Essere un fan del Genoa in Africa è una sensazione straordinaria, complementare e tautologica.
Nella quarta di copertina del libro “Genoa Club Malindi” scrivo: “Mal d’Africa e Mal di Genoa.
Chi ne è stato colpito non potrà mai fare a meno di veder correre la sua stessa esistenza su binari paralleli, di considerare le tappe fondamentali del suo percorso terreno senza esplorare quella parte della sua anima che chiede di essere soddisfatta in un unico modo, con l’appartenenza. Essere genoano, appartenere all’Africa. Sensazioni simili, battiti del cuore come zoccoli di animali gemelli che galoppano selvaggi in una savana di emozioni meravigliose”.
Ma il calcio in Kenya regala anche quel senso primitivo di svago, di aggregazione, coinvolgimento e fantasia grazie a cui da gioco di strada è diventato lo sport più popolare al mondo. L’entusiasmo dei bambini di questa parte d’Africa al solo sfiorare con i piedi una sfera di plastica o di stracci nelle radure di savana, rimanda alla nostra Penisola dell’immediato dopoguerra, ai rioni di Napoli e alle periferie delle metropoli del Nord. Quando poi il ludos si trasferisce davanti a una televisione, negli affollati e caldi bar, tra aliti speziati e afrori liberi e selvaggi come fantasisti in contropiede, al piacere dello sport e della competizione si aggiunge lo spettacolo dell’entusiasmo, della sfida, dello sfottò e perfino del litigio che offre lo spettatore. Le magliette delle squadre inglesi mezze strappate, con nomi di giocatori già in pensione da un decennio, le bottiglie di birra tiepida che attendono solo il momento di incocciarsi dopo un gol, le fronti gocciolanti che s’asciugano con i sottobicchieri spugnosi della Guinness. Ve lo immaginate un locale pubblico in Kenya in cui le donne, sia pur corpulente e inguainate in vestiti da sera alle quattro del pomeriggio, sono malviste o, peggio, nemmeno degnate di uno sguardo fuggente tra un tiro sopra la traversa e una rimessa dal fondo?
Così come avviene per il gioco, nei campetti improvvisati sulla spiaggia o sul ciglio delle rosse strade sterrate, in Europa si è quasi del tutto persa questa atmosfera da Bar Sport anni Cinquanta. Quando il calcio era davvero sinonimo di unità e non un modo per sfogare le proprie repressioni, e il campanilismo da tifo stimolava l’ingegno, non cadeva in grette rivalse di casta. Quando non c’erano le pay-per-view e per assistere a un match era d’obbligo rapportarsi con gli altri.
Oggi poi, oltre al senso liberatorio di affidarsi all’incognita di una pedata, c’è anche il sogno di diventare un campione. In Kenya non si guarda più soltanto agli uomini-gazzella d’altopiano, ai maratoneti di Eldoret e Nakuru, ma anche ai funamboli del pallone, come Mc Donald Mariga, il centrocampista di Nairobi che è approdato in Italia, gioca con il Parma e affronta gli avversari con il sorriso, come fossero muzungu da accogliere all’aeroporto con il tormentone “jambo, habari? Karibu Kenya”. Anche il sogno è incorrotto, qui. Non è desiderio di soubrettine, di yacht e di bella vita nei night club. E’ la speranza di trasformare il proprio villaggio in un gioiello con acqua e corrente, come quello dei parenti di Obama, è l’essere riconosciuti per strada e portare ottimismo degli altri giovani, come fa l’ex olimpionico Kipteker.
Forse non durerà molto, perché dopo il calciatore col nome da fast food, gli osservatori di mezza Europa si sono sparpagliati sui campetti di terra rossa misto erbacce dell’East Africa alla ricerca dei nuovi Drogba o Eto’o. Prelevano sedicenti sedicenni dal passo felino e dallo sguardo spaurito e li mettono in un college del Ghana per un anno, o regalano loro e ai loro genitori una stagione nel freddo di Brescia o Udine, per poi rispedirli in patria con i sogni congelati. Lo stesso Mariga, dopo essere stato scartato dalle multinazionali del pallone, aveva iniziato la carriera in Scandinavia, dove per scaldarsi correva il triplo degli altri e saltava più in alto di tutti. Ora in Emilia gli sembra di stare ai tropici.   
L’Africa, grazie al calcio, ha un’altra delle tante possibilità di salvare il pianeta dall’imbarbarimento. Già, perché lei per prima ha conosciuto e subito la barbarie, ed ha scelto di restare adolescente, con tutte le conseguenze che una decisione del genere comporta, compresa quella di subire abusi dagli adulti e dai propri parenti. Se nella vita pubblica, nella politica, nell’economia e nell’esercizio del potere risulta essere un grave errore, nelle manifestazioni ludiche e sportive sarà eternamente un pregio. Questo il Genoa ha insegnato prima di tutti in Italia, questo ancora cerca di divulgare il football inglese, per cui tanti kenioti stravedono.
Viva il calcio in Africa, specie se sotto il segno del Grifone!  

TAGS: genoa kenyagenoa malindicalcio kenya

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