Editoriali

EDITORIALE

Aspettando i barbari, volete credere a chi vive a Malindi?

Riflessioni dal Kenya, una settimana dopo l'attentato di Garissa

09-04-2015 di Freddie del Curatolo

Il grande scrittore sudafricano J.M.Coetzee nel suo celebrato romanzo "Aspettando i barbari" (in Italia pubblicato da Einaudi, ve lo consiglio) da voce a un magistrato che da sempre vive in una zona di confine dove non è mai successo nulla. 
Di colpo, dalla lontana capitale, giungono notizie preoccupanti, i "barbari" sono sul piede di guerra e potrebbero arrivare da un momento all'altro. Così vengono mandati anche in quella zona esperti militari e politici per sondare la situazione. 
Ognuno la pensa a suo modo, tra chi conduce inutili e dannose cacce alle streghe, chi individua invisibili nemici e così via. 
Nessuno ovviamente si fida del parere di chi, come il magistrato, vive lì e vede la situazione con più chiarezza e obbiettività. 
La differenza tra noi italiani di Malindi e il magistrato di Coetzee è che ai suoi tempi non c'erano i giornali online, non c'era Facebook, anche se la televisione, come sempre, dirigeva lo spettatore dove i suoi interessi volevano.
Da due giorni a questa parte ricevo telefonate da giornalisti di carta stampata, blog online e televisioni, ma in pochi pubblicheranno le mie parole. Nessuno crede a quel che dico loro. 
E badate bene, non asserisco mica che anche qui, come a Tunisi o a Parigi, non ci sia la possibilità di attentati o di violenze improvvise. Nessun luogo ormai è sicuro. 
Mai potrebbe esserlo il Kenya intero, colpito al cuore, benché al confine, in una terra di nessuno dove anche il Governo fa fatica (e forse neanche ci prova con tenacia) a garantire sicurezza. Ma sapeste quante cose non sono garantite in questo Paese. Ogni giorno muiono donne e uomini di dolore, per mancanza di medicine che lo possano alleviare, muoiono madri di parto, ragazze di infezioni dovute all'infibulazione, interi gruppi di cittadini per incidenti stradali dovuti allo scarso controllo dei mezzi sulle strade. Al confine con l'Etiopia kenioti si ammazzano tra loro per un quadrilatero di terra coltivabile, nel Lago Vittoria per qualche isolotto pescoso.
Il Kenya è grande tre volte e mezzo l'Italia, e gran parte del Paese è ancora Terzo Mondo. Lo sapete questo? O siete informatissimi solo su Al Shabaab e Isis perché ora è questo che ci propinano in prima serata?
Dico a tutti semplicemente che noi qui non abbiamo paura e anzi, in qualche modo ci sentiamo affiancati, nella nostra tranquillità, da tantissimi islamici. 
Sono i nostri fornitori di pesce, di frutta, di verdura, i driver che guidano i pulmini, i tuk-tuk, i taxi che ci portano in aeroporto, i fuoristrada che vanno in safari. 
Sono i manager dei nostri hotel, i cuochi dei ristoranti, i compagni di merende analcoliche in riva al mare o nei chioschi della old town. 
Sono le sarte che ci confezionano le camicie, le commercianti che abbassano il prezzo di borse e sandali, le più brave contabili, le impiegate di banca più affidabili. Quanti Alì, Ahmed, Hassan e Mohamed conosciamo? Quante Fatma, Adija o Farida frequentiamo, in senso più biblico che coranico?
Nonostante questo, per tutti, noi DOBBIAMO avere paura, anzi saremmo già con i bagagli in mano e un biglietto di solo ritorno, perché qui (a detta degli altri) la tensione si taglia con il coltello, perché è normale che se a 360 chilometri di strada inospitale da qui, al confine con la Somalia in una zona in cui un occidentale non andrebbe se non pagato parecchio, c'è stato un attentato gravissimo, anche noi qui dovremmo farcela nelle mutande.
Spiace per il bene della notizia da cliccare, per le famiglie a casuccia che si compiacciono di restare a Casalpusterlengo o a Velletri, per i nostri fini analisti politici e per l'economia di casa nostra che sicuramente ci guadagna a mettere in cattiva luce un Paese africano che non ha stipulato accordi bilaterali con Roma. 
Vorremmo tanto dirvi che qui non dormiamo la notte, che non stiamo partecipando in questi giorni a un Festival Multiculturale dove l'integrazione è così naturale che non viene nemmeno da pensare a chi c'è di fianco a te, come invece ormai si fa in Europa, quando appare un signore con la barba stile Osama Bin Laden.
Invece qui incontriamo kenioti di origine araba che sono i primi a segnalare un cittadino di origine somala alla polizia locale, qualora se ne vedano (davvero molto difficile), vediamo preti e imam che pregano insieme per la pace in uno stadio, con la partecipazione di induisti e animisti delle tribù locali e l'aspetto che ci preoccupa di più in assoluto è la situazione politica nazionale, e l'incertezza sui tempi dell'allungamento della pista dell'aeroporto internazionale. 
E badate bene, dico "ci preoccupa" e non intendo gli imprenditori e i Briatori, i ristoratori e tutti quelli con gli "ori".
Intendo 250 mila kenioti che lavorano nel settore del turismo, intendo tutti i Kazungu o i Kadenge che lavorano per noi o per gli Hassan e i Mohamed.
Pensare a loro in questo momento mi viene naturale, perché io vivo con loro, molti di loro li ho visti nascere, crescere, imparare un mestiere, uscire dalle capanne di fango e farsi una casetta in cemento. Non ero a 7000 km di distanza attendendo di piangere le loro miserie il giorno dopo per poi dire "adesso è solo l'ora del silenzio". 
Ho sempre alzato la voce per loro, e a maggior ragione lo faccio adesso. I kenioti sono le vere vittime di tutto questo, ma non perché hanno perso 150 giovani studenti che vivevano loro malgrado in una zona ad alto rischio.
Sono vittime di qualcosa ogni giorno, e in più devono sopportare pure l'inutile populismo o la superficialità di chi crede che qui sia solamente una questione di Allah contro Cristo.
Qualcuno addirittura ha paragonato la situazione keniana a quella della Nigeria, con Boko Haram.
Oggi bastano le parole di un presunto "portavoce" a spaventare il mondo intero.
Ma così, datemi retta, non si vive più e il paradosso appare ancora più grande in un luogo come la costa keniota, dove anche chi non possiede nulla è pronto al sorriso, dove si coltiva la speranza insieme agli spinaci da mangiare con la polenta, aspettando i fagioli una volta alla settimana, negli slum dove il sole di qualsiasi buon Dio non da i suoi raggi e dove i pericoli maggiori si chiamano infezioni, serpenti o scorpioni.
Dove si lotta ogni giorno per poter andare a scuola con un paio di scarpe decenti e un libro in più e dove l'industria del turismo fino ad oggi ha offerto una possibilità reale a quelle 250 mila persone. 
Qui, sulla costa keniota dove non è mai successo nulla di così grave da suggerire a uno solo di noi di tornare in Italia o scappare altrove. Magari avete ragione voi, il sole ci ha abbagliato, siamo incoscienti, siamo diventati un po' fatalisti come la gente di qui.
Domani mattina forse arriveranno anche qui i "barbari" e lasceranno il segno, come a New York, Il Cairo, Tripoli, Parigi e Tunisi. Arriveranno e dopo qualche mese saranno dimenticati. Noi nel frattempo, se non fosse per il piacere che ci negate della compagnia di tanti altri connazionali, staremmo tanto, tanto bene e sfidiamo chi è stato a Malindi e Watamu negli ultimi anni a dire il contrario a ragion veduta.
Nel frattempo, a tutti gli altri, chiediamo solo di fare il piccolo sforzo di credere alle nostre parole. 

TAGS: Riflessioni KenyaGarissa KenyaDisinformazione Malindi

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