EDITORIALE
23-05-2025 di Freddie del Curatolo
Immaginate che il cuore dell’Africa Orientale, intesa come Kenya, Uganda e Tanzania (ma mettiamoci anche il piccolo ma esemplare Ruanda) diventasse una sola nazione.
Enorme nella sua estensione, e soprattutto di terre quasi interamente utilizzabili (meno del 10% di deserti e di montagne inutilizzabili), quindicesima nel mondo per metroquadri (1.800.000 circa) e addirittura ottava per popolazione, quasi 200 milioni di anime, di cui l’ottanta per cento sotto i 35 anni, quindi pura “forza lavoro”.
Una potenzia…potenziale.
Benchè l’incipit possa sembrare (ed essere) “fantageopolitica”, mai come oggi i quattro Paesi dell’Est Africa, con le loro amministrazioni governative, sono così allineate.
Le loro democrazie vacillano, i presidenti sono sempre più autoritari, la libertà di espressione e le opposizioni sono osteggiate, tutto nel nome di uno sviluppo economico che però privilegia soprattutto le oligarchie che governano.
Se Uganda e Ruanda sono già avanti nel processo di sovranizzazione che oggi è quantomai di moda, Kenya e Tanzania stanno facendo prove di autoritarismo illuminato.
In Ruanda, Paul Kagame è al quarto mandato, dopo aver vinto le elezioni con un fin troppo sospetto 99% ed aver cancellato, con l’aiuto del Parlamento, i termini delle legislature.
In Uganda, Yoweri Museveni, per il solo fatto di aver cacciato il cruento dittatore Idi Amin Dada, siede sulla poltrona presidenziale dal 1986, con l’idea di lasciare poi lo scettro al figlio Muhoozi, attuale capo dell’esercito, che non sembra tanto normale, di testa. Al confronto delle sue invettive su X, quelle di Elon Musk e JD Vance sono cuoricini. In uno dei suoi tweet incendiari, si augurava di avere i leader dell’opposizione tra le mani per torturarli, in altri annunciava di voler invadere i paesi confinanti, la Repubblica Democratica del Congo e il Sud Sudan, per liberarli dai ribelli “a modo suo”.
D’altronde era impensabile che Trump, Putin, Kim e gli altri leader sovranisti non facessero scuola anche in Africa Subsahariana. Il principio d’imitazione del mondo occidentale per l’Africa anglofona è sempre stato un evidente trasporto emotivo postcoloniale. E’ facile pensare che se la cosa funziona con gli elettori di Paesi occidentali più evoluti dal punto di vista della “res publica”, figuriamoci nelle giovani democrazie africane.
In particolare per i governi del cosiddetto Corno d’Africa che devono affrontare le scorribande dei giovani e giovanissimi della Generazione Z, tecnologici e social come pochi nel mondo e la voglia di esprimere tutte le potenzialità che finalmente li potrebbero elevare alla pari dei coetanei occidentali, se non addirittura superarli in quanto a desiderio di emergere, mancanza di noia e di “pappa pronta”.
Una forza da “primavera africana” non facile da tenere a bada per i presidenti di Kenya e Tanzania, i due Paesi traino della regione, per le loro potenzialità di crescita che sono sotto i riflettori delle grandi potenze mondiali, così come dell’Europa Unita. L’afflato sovranista è quello che li accomuna in questo periodo ed alcuni fatti di cronaca di questi giorni lo dimostrano e potrebbero delineare inaspettate alleanze.
Come si sa, in Kenya il presidente William Ruto, dopo aver fatto alleanza con l’ex dell’opposizione Raila Odinga, ha nominato i membri della commissione elettorale tra i suoi accoliti, come reclamano le associazioni per i diritti umani, in Uganda e Tanzania invece i due principali oppositori del governo sono entrambi agli arresti ed accusati di alto tradimento, condanna che prevederebbe la pena di morte. In Tanzania, che andrà alle urne il prossimo ottobre, il presidente è una donna, Samia Suluhu Hassan, che ha estromesso il partito di opposizione Chadema dalle elezioni perché non ha accettato le riforme elettorali da lei proposte.
Il processo al leader, Tundu Lissu è iniziato nei giorni scorsi e gli osservatori keniani, tra cui l’ex ministra della Giustizia Martha Karua, una delle nuove guide dell’opposizione del suo Paese, sono stati arrestati e successivamente espulsi. Il governo di Nairobi ha definito la scelta “non politica” e nei diritti della Tanzania. Successivamente, l’attivista Boniface Mwangi, uno dei leader delle proteste antigovernative dell’anno scorso a Nairobi, è stato arrestato in Tanzania per lo stesso motivo e per giorni non si sono avute sue notizie. Storicamente, Kenya e Tanzania non sono mai state nazioni amiche, c’è un patto di non belligeranza, ci sono rapporti economici ma anche differenze politiche evidenti. E’ un po’ la “cuginanza” tra Italia e Francia, con Roma chiaramente nella parte di Nairobi e lo snobismo tanzaniano all’ombra della Tour Eiffel. Eppure in questo caso, il governo keniano ha avallato i fermi e le espulsioni dei connazionali politici ed attivisti, dando ragione alla presidentissima tanzaniana che ha chiesto ai keniani di “non immischiarsi” nelle loro questioni. La scomparsa di Mwangi però ha creato tumulto presso le organizzazioni del Kenya, che hanno minacciato di "invadere" la Tanzania e farsi arrestare in massa, e hanno allestito un presidio di protesta sotto l'Alto Commissariato tanzaniano di Nairobi. Alla fine il governo keniano ne ha chiesto la liberazione e Mwangi è stato ritrovato a Ukunda, vicino a Diani beach, dopo essere stato abbandonato da un'automobile.
Intanto il governo tanzaniano ha applicato restrizioni alla piattaforma X, la più usata da attivisti e dissidenti, motivando l'azione con un presunto attacco di hacker ai profili istituzionali...
Messi insieme uno per uno, sono tutti pezzi di un unico mosaico, disegnato per ridurre ai minimi termini l’opposizione, e zittire lei e i suoi sostenitori in vista delle prossime elezioni, ad ottobre di quest’anno.
Anche al leader dell’opposizione ugandese è toccata la stessa sorte del suo omologo tanzaniano, con il presidente Museveni che da più parti viene accusato di non tutelare i diritti umani.
Il leader storico dell’opposizione dell’Uganda, Kizza Besigye, è in carcere ormai dallo scorso novembre, dopo essere stato deportato proprio dal Kenya, accusato da politici e organizzazioni non governativi di complicità. E senza farsi problemi, il ministro degli Esteri keniano, Musalia Mudavadi, ha ammesso dopo mesi che il Kenya ha aiutato le forze di sicurezza ugandesi a rapire in suolo keniano Besigye, perché la sua presenza nel Paese “non era chiara”.
Besigye, ex medico personale ed alleato del presidente Museveni, è sotto processo per alto tradimento alla Corte Marziale del Paese, e come detto, anche lui come il collega tanzaniano Tundu Lissu, se come detto, se condannato rischia la pena di morte.
Infine, come ha ricordato un interessante editoriale apparso su Al Jazeera, la deriva sovranista e unitaria di questi Paesi, sembra ricevere supporto (e sovvenzioni) da certe organizzazioni americane ed europee che cercano di mantenere valori rigidi e profondamente radicati nelle convinzioni ultracattoliche degli africani, perché aderenti con le loro attitudini omofobe e radicate nell’idea della famiglia e dei valori, e probabilmente per tenere allo stesso tempo a bada il fermento giovanile e la cultura “woke” in un continente così giovane da far loro paura.
Riusciranno queste pressioni esterne e l’unità tra governi autoritari a calmare la piazza ed accontentare il popolo, senza provocare smottamenti interni? E soprattutto, che fine farà la libertà del singolo individuo in questi Paesi africani?
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