POVERO KENYA
08-02-2024 di Freddie del Curatolo
Un altro tragico fatto di cronaca riporta a galla uno dei grandi problemi con cui il cuore del Kenya, quello delle fasce sociali più bassi, delle aree rurali e delle periferie dei centri urbani, deve fare i conti: l’alcolismo.
E non è solo un problema di fegato, di lucidità e delle possibili violenze domestiche e non che l’abuso può provocare, ma anche di morte ed infermità permanenti, allorché la scarsità di denaro per acquistare alcolici commerciali, spinge tanti keniani a bere distillati artigianali, prodotti illegalmente e altamente nocivi, tossici.
Due giorni fa l’ultimo caso eclatante, dieci membri della stessa famiglia, nella contea di Kirinyaga a nord di Nairobi, si sono ritrovati, come spesso accade in quelle zone, in un locale a fare un po’ di baldoria.
Una bevuta tra parenti finita molto, molto male.
Il bar, si dice di proprietà di un ricco uomo d’affari locale, produce “birra artigianale”, che altro non è che una variazione sul tema della fatidica “Chang’aa”, un fermentato di miglio, foglie di verdura di campo, bucce di frutta e qualsiasi altro scarto naturale possa capitare sotto tiro. Ma se una volta, pur essendo micidiale, l’intruglio alcolico mandava al tappeto (per chi ce l’aveva, per quasi tutti era una stuoia di fango) come una grappa slovena o una vodka di bucce di patate uzbeka, oggi si tende a mischiare le “vinacce” con composti chimici. Quando va bene, metanolo ed etanolo e quando va ancora meglio, in quantità modiche, che comunque significa stordirsi. Perché spesso i produttori esagerano e i risultati sono nefasti.
Come nel caso della famiglia del villaggio di Kangai. I primi sei hanno iniziato a stare male appena tornati a casa: vomito, convulsioni fino alla morte. Altri quattro sono rimasti ciechi quasi all’istante, esalando l’ultimo respiro nella notte. L’ultimo è spirato la mattina dopo in ospedale.
I residenti del villaggio, inferociti, si sono recati fuori dal locale che aveva servito la Changa’a (che in dialetto kikuyu significa “uccidimi in fretta”) avvelenata e gli hanno dato fuoco.
La polizia è arrivata quando il bar era già stato ridotto in cenere e i compaesani dei defunti si erano già dileguati. L’Autorità nazionale contro l’abuso di droga ed alcool (Nacada) ha dichiarato qualche mese fa che quasi 5 milioni di persone in Kenya fanno abuso di sostanze nocive e illegali, tra cui al primo posto figurano le bevande artigianali. E le mafie proliferano.
Il governo Ruto, fin dai primi mesi del suo insediamento, sta cercando di cambiare le abitudini ancestrali delle comunità rurali (iniziando dalle pendici del Monte Kenya, dove dovrebbe essere più facile arrivare, piuttosto che negli slum di Nairobi, dove la Chang’aa si fa con l’acido delle batterie usate, l’olio dei freni gli stracci sporchi e c’è chi dice addirittura gli assorbenti usati, tutti elementi che accelerano la fermentazione). Il viceministro Rigathi Gachagua, che viene dalle aree kikuyu vicine a quella dove si è consumata la strage familiare, e sua moglie, sono tra i più ferventi detrattori della produzione di alcolici che vengono spacciati per drink tradizionali (come la Muratina, che originariamente derivava da un frutto africano simile alla carruba) ma che in realtà ormai di naturale hanno ben poco. Alla fine, il pur deleterio vino di palma della costa, il mnazi, è un'acqua di rose al confronto.
La scorsa estate, nelle cinque contee che circondano le pendici del Monte Kenya, sono stati chiusi più di 6000 locali dediti a liquori autoprodotti. Un bicchierino di Changa’a costa al massimo dieci scellini, venti volte meno di una birra e cinquanta meno di un whisky. E dà dipendenza molto più di un distillato originale, tanto che chi è sotto il suo effetto è praticamente come un tossicodipendente e farebbe di tutto per procurarsi un litro di veleno. Anche prostituirsi (e non solo le donne) o chiaramente rubare.
Ma “uccidimi in fretta” rispetta quasi sempre la sua promessa e se proprio non riesce ad ammazzare, riduce le persone come larve, lasciandole in condizione di semi-incoscienza per gran parte della giornata, ai bordi delle strade o in qualche angolo di muro. Che, come diceva il poeta, “è una morte un po’ peggiore”.
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