STREET FOOD
05-06-2021 di Freddie del Curatolo
In principio fu il matumbo.
Il cibo keniano è quasi sempre “cibo di strada”, nel senso che viene cucinato non solo al pubblico ma ad altezza terra, spesso fuori da capanne senza pavimento o sulla veranda di baracche che fungono da trattorie. La cucina popolare del Kenya è soprattutto sostentamento, ma questo non vuol dire che la gente non apprezzi il gusto, quando può la soddisfazione del palato che spesso identifica (un po' come i ragazzini e gli americani) con il fritto, il salato e il dolce all'estremo, le salsine accattivanti.
Per un “mzungu” ed in particolare per noi italiani così curiosi in fatto di gastronomia, anche se ben ancorati alle nostre tradizioni e strenui difensori dei pregiudizi delle nostre papille gustative, lo “street food” del Kenya è sempre comunque un’attrazione.
I deboli di intestino e gli schifiltosi si limitano a guardarlo, con un po’ di invidia per chi ne gode allegramente, anche perché spesso i profumi e gli aromi delle spezie che vengono usate nelle preparazioni, sono davvero allettanti.
Gli spavaldi, i golosi e gli incoscienti, scelgono semmai quei baretti e ristorantini che hanno una parvenza di igiene, cura del prodotto e del servizio al cliente.
Vengono scartati a priori i chioschi di lamiera dove gli strumenti di cottura come forchettoni e ramaiole vengono appoggiati per terra, quelli in cui i piatti giacciono tutti insieme nella stessa acqua di un enorme catino e vengono giusto sciacquati e proposti al cliente e quelli in cui il cuoco “a vista” si infila un dito nel naso prima di consegnare il cartoccio di giornale in cui sono custodite le samosa.
C’è però chi ne fa un discorso culturale: per diventare un vero esperto d’Africa devi conoscere non solo le frasi idiomatiche nella lingua locale e qualche parola nel dialetto della regione in cui ti trovi, ma anche i piatti tipici e le bevande consumate dalla povera gente.
In base a questo postulato, il vertice più alto, il gradino finale dell'iniziazione, è rappresentato dal “matumbo”.
SI tratta di interiora di bovino adulto (in swahili letteralmente “pancia”) malsciacquate, che quindi contengono tutti i retrogusti immaginabili della digestione di un erbivoro.
Se non si è completamente privi di due sensi (gusto e olfatto), l’unico modo per poterlo mangiare è essere ubriachi di mnazi, il potentissimo (e sconsigliatissimo) vino di palma locale. Il fiato che avrete dopo una bevuta di mnazi potrà sconfiggere gli effluvi pestilenziali del matumbo.
Al secondo posto viene la “mutura”, definita una vera delizia dai keniani.
Probabilmente lo sarebbe, se fosse cucinata da uno chef stellato che prende le interiora, in questo caso quelle di capra o di bovino giovane, le pulisce con perizia, le lava col vino e spezie, le asciuga e poi le lascia nel latte una notte intera. Se invece, come avviene sulla strada, più o meno le si strappano dall’animale e ci si impacchetta una salamella da cuocere alla griglia, la bontà supera di gran lunga quella del “matumbo” (ed è ciò che ti frega) ma i postumi possono essere importanti.
Dalla salamella alla salmonella il passo è breve.
I consigli di un mzungi che vive da tempo qui, per i novelli curiosi aperti a nuove esperienze culinarie, è quello di avvicinarsi poco a poco alla gastronomia di strada locale. Iniziando magari dalla classica samosa, consumata in un baretto decente, dalle “viazi karai” (le patate impastellate) e dai classici piatti locali compositi, come il riso pilau con carne, il pollo biryani e l’ugali con karanga (spezzatino e patate). Poi si può passare alla “mboga”, le verdure locali di accompagnamento alla polenta e alle tante specialità fritte e rifritte.
Oppure c’è sempre la terapia d’urto. Appena arrivati, un bel succo di frutta in un chiosco locale, con aggiunta di ghiaccio.
Battesimo di fuoco e tutto il resto poi sarà un Paradiso.
Tutto, tranne il matumbo.
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