L'ANGOLO DI FREDDIE
16-05-2024 di Freddie del Curatolo
Lo chiamano “il bosco dei baobab liberi”.
Liberi.
Non solo perché a differenza di tanti altri storici alberi africani, non sono minacciati dalla speculazione edilizia, dai cambiamenti climatici e dall’inquinamento.
Non solo perché vivono in comunità in una foresta a pochi passi dal mare.
Sono al sicuro (o credono di esserlo) perché le rovine dell’antica città swahili sono monumento nazionale e il loro giardino è all’interno di un museo, dove da più di cinquant’anni nessuno li minaccia.
Sono particolari, hanno decine di fori sulla loro corteccia, come se d’un tratto dovessero zampillare, per irrorare di questa libertà chi si presenta al loro cospetto.
Ma la gente del posto li chiama “i baobab liberi”, li rispettano, vi si radunano sotto e parlano con loro anche per un altro motivo.
L’antica città si chiamava “Jumba la Mtwana” e non è un bel nome da ricordare, per chi venera gli antenati nativi di quel luogo, perché significa “casa degli schiavi”. Un ricordo che evoca abusi, vana resistenza, sanguinose violenze ed infine, secoli di sottomissione.
Intorno all’anno Mille, non si chiamava ancora così. Era un tranquillo villaggio di pescatori, non lontano da Mombasa dalla quale era separato da due grossi canali e una fitta foresta, popolata da elefanti, erbivori e predatori.
Quando arrivarono le grosse imbarcazioni dallo Yemen, i commercianti arabi si presero gli uomini migliori, strappandoli alle loro mogli e ai figli, e i giovani, per farli faticare sulla tratta tra Mombasa, Zanzibar e la città tanzaniana di Kilwa. Commerciavano particolarmente in legname, corallo e spezie.
Ogni volta tornavano a rapire nuovi uomini e riportavano i pochi schiavi inservibili che non erano morti di stanchezza o di malattia.
Quel luogo magico, pieno di frutti della terra e di bellezza aveva conquistato gli yemeniti, che decisero di far costruire case in pietra per loro ad altri schiavi, presi sul posto, e che le donne, gli anziani e gli adulti meno forzuti avrebbero potuto essere utili come personale. Negli stessi anni, di ritorno da un viaggio alla scoperta del Madagascar, portarono i semi di alcune piante che non avevano mai visto sulla costa nordorientale dell’oceano indiano africano, tra cui quelli del baobab.
Così nacque la “città degli schiavi”, che quattrocento anni dopo le prime conquiste era ancora attiva e tempestata di baobab che, dopo i primi cinquant’anni, erano finalmente fioriti, avevano dato frutti la cui polpa ristorava e con il passare del tempo diventavano veri e propri giganti buoni.
La gente del posto attribuiva loro anche poteri magici, li sentiva sussurrare di notte e cercava di carpire da loro segreti ed insegnamenti.
E’ risaputo che i baobab, durante le piogge, possono incamerare nelle loro cavità una gran quantità d’acqua e che la popolazione locale li scava all’interno affinché ne possano contenere ancora di più, sapendo che la pianta non ne soffrirà, perché la sua forza è nelle radici, nella corteccia e nei rami.
La leggenda narra che un anno venne una grande siccità e le famiglie arabe iniziarono a soffrire. Le donne di Jumba La Mtwana, che conoscevano il potere dei baobab, ebbero una pensata.
Si radunarono una notte sotto i più maestosi esemplari della foresta e chiesero loro con un rito tradizionale di aiutarle. Il giorno dopo alcune di loro si recarono dai loro padroni e dissero che potevano risolvere il problema della siccità, ma che se lo avessero fatto, avrebbero dovuto liberare gli schiavi e dare loro un salario e la dignità.
I padroni accettarono e la gente del villaggio iniziò a bucare i baobab concavi per poterne ricavare acqua. Una notte, quando erano a buon punto, uno dei baobab sussurrò, e disse loro che i padroni avrebbero preso l’acqua ma non li avrebbero mai liberati.
Usarono i fiori della pianta, i funghi che crescevano intorno alle loro radici e gli escrementi di alcuni anfibi che dormivano nelle loro cavità, mescolarono tutto all’acqua e la portarono agli arabi.
Questa bevanda salvò Jumba La Mtwana dalla sete, ma si rivelò per gli schiavisti una droga potente, che gettò su di loro una sorta di incantesimo. Decisero così di liberare gli schiavi e costruire per loro altre case di pietra e vivere insieme in comunità.
La leggenda degli stregoni che avevano ammaliato gli arabi arrivò alle orecchie di Fino altri stranieri che, deplorando la mollezza e il lassismo degli ex-schiavisti, decisero di saccheggiare la città swahili sul mare e distruggerla. Ma le leggende dei baobab magici li impaurirono e decisero di non prendere schiavi e non tornare più a Jumba La Mtwana, preferendo altri insediamenti dalle parti di Kilifi e verso la Tanzania. Così gli abitanti del luogo ricostruirono le loro capanne di fianco alle rovine della città di pietra, e vissero umilmente ma liberi insieme ai loro baobab.
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