Opinioni

TESTIMONIANZE

Tra i fantasmi di Dandora che fanno comodo a tanti

Il viaggio nell'inferno della discarica nel libro "Nairobi"

03-06-2024 di Freddie del Curatolo

“Nella discarica lavorano quotidianamente 6000 persone, tre quarti delle quali ci vivono dentro o sono nate e cresciute nei dintorni. Questo è il loro habitat, il loro mondo. Sono specializzati nel lavoraccio che fanno, chiedono solo che venga riconosciuto. Perfino le prostitute hanno una rappresentanza sindacale, perché i “waste pickers” non possono averla? Non siamo fantasmi, anzi facciamo comodo a tanti, è ora di guardare alla realtà”.
Dandora, nonostante il nome da saga fantasy o da eroina della mitologia greca, è più reale che mai.
Sorge a nordest di Nairobi, oltre il popoloso quartiere di Kariobangi e lo slum di Korogocho, e si raggiunge da tre ingressi principali. Il primo è l’istituzionale, formato da un ampio piazzale dietro al distributore della Total, in cui si ammassano i camion della municipalità stracarichi di quintali di immondizia. Lungo il loro percorso dalla raccolta allo scarico, guidando come posseduti, i conducenti rovesciano parte dei rifiuti sulle strade della periferia, già provate da ogni tipo di scarto. All’arrivo restano in coda per ore sotto il sole, prima di riversare tutto nell’immenso settore istituzionale della discarica.
Il secondo ingresso, nella Phase 2 di Dandora, dietro la scuola elementare, è stato appaltato da un’azienda privata che si dovrebbe occupare dello smaltimento. Non accade in realtà nulla di diverso dalla piazza municipale. Uomini e donne vestiti di stracci che coprono anche volto e testa, con grossi scarponi, vanghe e rastrelli, rovistano cercando ciò che per altri può essere ancora prezioso (scarti di ogni tipo di metallo, residui tecnologici) e che per loro stessi possano risultare edibili. C’è chi pulisce foglie di cavolo, controlla le rimanenze di liquido in un tetrapak di succo di frutta. Tutto finisce nelle ampie pieghe di ciò che indossano, metà vestito e metà sacco.
La terza porta dell’inferno è quella da cui entriamo io e Didi. L’ingresso di tutti, naturale propensione di un quartiere che dalla strada principale potrebbe assomigliare a mille altri visti ai margini di città e cittadine del Kenya. Baracche di mitumba, i vestiti usati, chioschi di utensili ed elettronica cinese, ferramenta e magazzini che vendono indifferentemente sacchi di farina e di cemento, fondamenta e colonne di case mai terminate, pochi campi coltivabili e qualche campo da calcio. Dove c’è un muro, appare la scritta di una scuola o di una congregazione religiosa. Dove c’è uno slargo, ci sono motociclette taxi, matatu e venditori di noccioline. Come un pesce di palude, dietro la spina dorsale, si dipanano lische di viuzze irregolari e si alternano squame di edifici senza intonaco e baracche, divisi da stretti camminamenti viscidi e sconnessi. Ci si avvicina alla testa maleodorante del pesce. Da una piazzetta in cui bambini giocano a pallone e le ragazze s’inventano saltarelli tra i gradini di una casa e i panni stesi, si scende nella discarica di tutti, nell’unica grande riserva di pesca di chi è nato e cresciuto lì…


Ci incamminiamo verso le baracche dei residenti, che vivono letteralmente sommersi da montagne di brandelli di tessuto, bottiglie di plastica, resti di borse, zaini e sandali, scheletri di giocattoli, scalpi di peluche e imballaggi vari. I più operosi liberi professionisti di Dandora, fuori dalle loro baracche, hanno accumulato macerie differenziate.
C’è un angolo dedicato alle bottiglie di vetro. Una donna corpulenta e un giovane, forse suo figlio, controllano eventuali rimanenze di superalcolici e stillano in un’altra bottiglia, poi accumulano in una montagnetta per poi coprire il tutto con teli recuperati anch’essi nella vallata e frantumare i vetri con grossi bastoni.
Quattro euro per una giornata di lavoro in mezzo a sporcizia, fumi tossici, piscio di topi e tutte le malattie possibili. Senz’acqua da bere, per cui bisogna andare avanti indietro dalla spina dorsale, e lavando i vestiti nel Mathare River, il fiume più inquinato del Kenya. A volte mangiando e bevendo quel che si trova in mezzo ai rifiuti. Fino a pochi anni fa, le compagnie aeree che atterravano all’aeroporto internazionale Jomo Kenyatta, a una quindicina di chilometri da Dandora, scaricavano nella struttura i resti dei pasti consumati dai passeggeri, che finivano nei sacchi trasportati dai camion nella discarica. Molti waste pickers si cibavano anche degli avanzi dei box, fino a quando l’indignazione generale ha bloccato il propagandato disdicevole processo. La solidarietà internazionale dice: meglio il digiuno o al limite pane e latte una volta tanto a chi balla e rappa…


È il grande paradosso di Dandora, la situazione di chi sopravvive grazie alla discarica non sembra avere margini di miglioramento, non solo a causa dell’inefficienza delle istituzioni, ma anche per via di chi si addolora, si commuove, si risente e vorrebbe far qualcosa per gli “ultimi degli ultimi”. Qui la vita continua, chi raccoglie spazzatura ha una sua vita, alleva figli e vorrebbe mandarli a scuola e dar loro un futuro più decente del loro presente, cosa che con il frutto della loro fatica quotidiana non è facile. Cinquecento scellini al giorno, per rifornire, attraverso un cartello di industriosi avvoltoi, aziende che spesso sbandierano orgogliosamente il loro essere environment friendly, rispettose dell’ambiente e illuminano la loro aura di santità per vendere più cara la loro merce. Spesso senza chiedere né preoccuparsi della provenienza e del prezzo originale di ciò che riutilizzano.

(Brani tratti dal libro “Nairobi” di Freddie del Curatolo e Leni Frau (Edizioni OgZero)
Vincitore del premio letterario “Volterrani – Narrare il Mondo 2023
Tradotto in inglese con il titolo “Nairobi, The Visible City”.

Potete acquistarlo online sulle più importanti piattaforme di vendita o ordinarlo in libreria.
Per acquistarlo in Kenya, sia in italiano che in inglese, scrivere a info@malindikenya.net

TAGS: DandoraNairobidiscaricariciclo

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