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Il Sappe e il matrimonio giriama (2 parte)

Prosegue la saga malindina di Ric Giambo

12-05-2021 di Marco Sbringo Bigi

(Clicca qui se hai perso la prima puntata...)
Ci sedemmo tutti puntualmente alle dieci al tavolo del bar e ordinammo dei caffè.
Il Sappe disse che di lì a poco avremmo avuto un appuntamento con il Consiglio presso la sede di MADCA.
Ignorando il mio sguardo interrogativo proseguì dicendo «Tutti sanno che la “Malindi District Cultural Association” è un'importante fondazione che si cura del recupero e della salvaguardia delle tradizioni tribali dei Mijikenda. Chiunque pretenda di conoscere Malindi - proseguì osservandomi con aria di sfida - sa perfettamente che a poca distanza da qui, praticamente in centro, è stato ricostruito un tipico villaggio di capanne di paglia e fango nel quale alcuni dei membri di MADCA  vivono, pregano, onorano i defunti, preparano da mangiare, lavano i panni e tutto il resto, inoltre ogni giorno, dalle campagne circostanti, molti altri, soprattutto giriama, arrivano per riunirsi e dare continuità alle loro tradizioni fatte di canti, poesie, balli...».
Stavo per confessare che non sapevo nulla di tutto ciò quando Ivo, che aveva capito il gioco sporco del Sappe nei miei confronti, intervenne in mia difesa dicendo «Secondo me il nostro amico ci invidia un po' perché è la prima volta che andiamo al centro MADCA, e come lo fu per lui un tempo, sarà per noi un'indimenticabile sorpresa».
Salimmo tutti e quattro a bordo del Pajero e il Sappe mi disse: «Hai presente dov'è il Come Back?»
«La discoteca di Watamu?»
«Noo, il ristorante africano tra la Casuarina e la Mombasa Road, ci abbiamo cenato un mesetto fa. MADCA è lì di fianco».
Ora ricordavo: ci avevo gustato un ottimo pollo alla brace, accompagnato da patate cotte anch'esse, con tutta la buccia, nella brace.
Il Come Back di Malindi va segnato nella guida Michelin degli spiantati come noi per la qualità del cibo e i prezzi modici.
Ricordavo anche di aver notato, al di là della strada, una lunga cinta di foglie di palma e bambù alta un paio di metri che si sviluppava nel terreno adiacente, sotto frondosi alberi e mi ero chiesto cosa nascondesse.
Parcheggiai, ci avvicinammo alla cinta e ci infilammo in un varco che dava su una specie di piccolo tunnel, sempre di foglie di palma intrecciate che finiva...
Non potevo credere ai miei occhi!
Vedevo intorno a me l'esatta rappresentazione di ciò che avevo immaginato leggendo romanzi ambientati nell'Africa Nera e poi ritrovato in tanti film, con tanto di capanne di paglia e fango disposte a cerchio intorno a uno spiazzo, quella destinata alle preghiere con i feticci animisti, la zona cucina ove da grossi pentoloni in ebollizione sopra le braci ardenti, usciva un getto di vapore.
Vicino all'ingresso una giovane donna che portava sulla schiena un bebè fasciato insieme a lei, stava stendendo dei panni su dei fili. Più in là dei giovani e robusti ragazzi con un semplice pareo (che per gli uomini si chiama kanga) annodato in vita stavano accordando i loro tamburi mentre un gruppo di donne di varie età accennava dei passi di danza.
Il costume giriama femminile, che oltre a un pareo annodato in vita prevede anche un corpetto, si chiama “hando” ed è di colore è blu per le anziane e bianco per le più giovani.
Quel piccolo tunnel di paglia avrebbe potuto essere un portale spazio-temporale che dava su un luogo senza tempo, che poteva essere oggi come centinaia di anni fa e invece ci trovavamo nel pieno centro di Malindi, in un’enclave che difficilmente sopravvive nelle zone urbanizzate.
Il nostro ingresso passò quasi inosservato per tutti quelli che avevano qualcosa da fare, tranne che per un eterogeneo gruppo di uomini che stavano seduti su delle sedie disposte a semicerchio, alcuni vestiti alla maniera dei mijikenda con kanga in vita e un pareo più sottile a mo' di sciarpa, altri con un improbabile completo composto da giacca camicia bianca e pantaloni, con tanto di cravatta e scarpe di vernice.
Qualsiasi vestito avessero scelto, lo indossavano tutti con grande dignità.
Appena ci videro si alzarono, ci vennero incontro sorridendo e ci strinsero le mani con grande entusiasmo.
Furono portate altre sedie, ci accomodammo e il Sappe fece le presentazioni: Mister Emmanuel Munyaya, presidente dell'associazione, era un uomo imponente dallo sguardo fiero.
Mister Kazungu, un anziano con gli occhialini rotondi alla John Lennon, era il poeta che scriveva poesie in lingua giriama.
L'avvocato Joseph Karisa Mwarandu fu introdotto come colui che affrontava gli ostacoli burocratici e legali incontrati spesso da MADCA, e infine Mwanyule Baya Mweri, che oltre a essere consulente culturale presso l'ufficio del governatore, era anche musicista e compositore di canzoni popolari.  Gli altri anziani di cui non ricordo il nome, erano di passaggio e provenivano da lande remote.
In un buon inglese, Munyaya raccontò al Sappe le novità sulle attività culturali della fondazione e poi, a proposito del matrimonio ci comunicò che il giorno successivo, domenica, era già stata organizzata la "Cerimonia del Nome".
«Prima di potervi sposare secondo il nostro rito - continuò Munyaya rivolto a Ivo e a Rossella - dovrete essere adottati da due differenti famiglie che, simbolicamente, dovranno approvare il matrimonio. Dal momento in cui sarà sorteggiato il vostro nome, apparterrete ufficialmente alla nostra tribù e sarete dei giriama a tutti gli effetti. Il matrimonio vero e proprio sarà celebrato settimana prossima, il 12 agosto, a Bungale, in corrispondenza del festival organizzato da MADCA dedicato a Mekatili Wa Menza»
«Si tratta - intervenne il Sappe - di una "pasionaria" giriama vissuta tra l'Ottocento e il Novecento, che osò sfidare il colonialismo inglese e le tasse sul raccolto. Fu imprigionata a nord del Paese ma riuscì a scappare e tornare a piedi a Malindi, per riprendere il comando della resistenza locale. Alla fine i procuratori britannici furono costretti a scendere a patti con lie e fu sepolta a Bungale, sulle rive del fiume Sabaki, come una vera e propria regina. Come vedete questo matrimonio è una cosa che non è stata per nulla presa alla leggera. Sposarsi a Bungale per un giriama è come sposarsi in Vaticano per un cattolico».
Queste parole impressionarono probabilmente più me dei promessi sposi, che avevano l'aria di aver studiato a fondo l'argomento, anche se notai che lo sguardo di Rossella era sognante come se fosse la prima volta che convolava a nozze.
Prima di congedarci Munyaya ci raccontò che nel primo pomeriggio era prevista una festa alla quale eravamo ovviamente invitati.
Poi Baya avrebbe accompagnato i promessi sposi a "fare shopping", ad acquistare cioè l'abito nuziale, una versione elegante delle divise che ormai conosciamo. Per Ivo era necessario anche un bastone di bambù con l'impugnatura ricurva, chiamato “kidata”.
C'era giusto il tempo di fare un giretto per curiosare, prima di andare a pranzare al Come Back, la cui vicinanza e gli effluvi delle griglie avevano provocato la scelta.
Provai a infilare la testa dentro una delle capanne.
Incredibile il fresco che c'era là dentro, mentre fuori si sudava. Dopo qualche secondo, quando gli occhi si abituarono all'oscurità, vidi un neonato che dormiva serenamente su un tappeto.
Nella capanna "sacra" s’intravedevano degli oggetti di legno, non ebbi il coraggio di avvicinarmi e fu invece il poeta Kazungu ad avvicinarsi a me, sempre sorridendo, per spiegarmi che quei feticci, i “vigango”, rappresentavano gli spiriti degli avi.
Dall'altro lato del villaggio c'era uno spiazzo all'ombra degli alberi nel quale si stavano probabilmente facendo le prove delle danze che si sarebbero scatenate nel pomeriggio.
Mi sentivo un privilegiato perché nessuno mi aveva minimamente dato la sensazione di essere considerato un estraneo. Quel posto magico non era certamente un'attrazione turistica e non era nemmeno un goffo tentativo di ricostruzione storica. Era a tutti gli effetti un villaggio giriama, come ce ne sono in giro per la costa keniota, con l'unica peculiarità che era stato costruito nel centro di una città che sta aspirando più alla modernità che alle tradizioni.
Il Come Back è un ristorante semplice, con grandi tavoloni di legno, un lungo bancone del bar e un fresco tetto in makuti.
L'unico difetto? Quei cavolo di televisori eternamente accesi che sono appesi dappertutto! Sono ovunque, non solo nei ristoranti e nei bar, ma addirittura negli uffici pubblici, in banca o negli ambulatori medici.
Purtroppo ciò che per noi è già antico per loro è moderno e irrinunciabile. Per fortuna dietro nostra richiesta, il volume degli altoparlanti fu abbassato.
Il pollo con patate era ormai una garanzia e lo ordinammo tutti, insieme ad diverse verdure, sebbene il menù proponesse addirittura le costolette di maiale, oltre al classico capretto. L'occasione di essere in un locale gestito da cristiani, fece scorrere fiumi di birra che rinforzarono il buonumore della compagnia.
Come sempre ci fu una gara di aneddoti e anch'io fui tirato dentro quando Ivo, che con la sua peculiarità di saper mettere a proprio agio le persone, mostrò molto interesse a proposito della mia carriera musicale.
Dopo il Kenya Coffee (una tazza colma di un leggero ma potabile caffè) e un conto super economico, ci alzammo per ritornare verso il villaggio.
Passando di fronte al Pajero il Sappe mi chiese: «Hai portato la chitarra?»
«Sì - risposi - è nel bagagliaio ma... che ci faccio con la chitarra in una situazione così?»
«Tu come la vedi?»
«Immagino - esitai un attimo e poi continuai - che se il Sappe mi dice di portarla è perché ritiene che torni utile» dissi in tono sommesso mentre aprivo il bagagliaio e prendevo lo strumento e infine mi toccò replicare a quello che oramai stava diventando l’ennesimo gioco tra me e lui:
«E tu, come la vedi?»
«La vedrò in prima fila! Ora andiamo che ci aspettano».
Il villaggio si era riempito di gente di ogni età che si era seduta sull'erba, mentre i percussionisti suonavano con molta energia creando un ritmo travolgente.
Molte ballerine e diversi ballerini erano partiti con canti ad antifona o corali e nel frattempo danzavano muovendosi avanti e indietro con agilità e sensualità sorprendenti.
Senza che ci fosse alcun elemento architettonico a delimitarlo, si era formato uno spazio, ove nessuno osava sedersi, che si potrebbe definire "Palco", o meglio: "Luogo destinato alle danze".
Lì ormai l'erba non cresceva più e una sottile polvere si sollevava al passaggio dei danzatori, senza che nessuno mostrasse il minimo fastidio a tal proposito.
In un collegamento di pensieri legati alla polvere, mi vennero in mente i bambini dei piccoli villaggi che, in mezzo al nulla, percorrono numerosi chilometri a piedi nudi per prendere l'acqua o per andare a scuola. Nella stagione secca di polvere ce n'è in gran quantità e i mijikenda sono storicamente e stoicamente abituati a respirare polvere quando non piove da un po'.
Dopo l'esibizione dei danzatori, Munyaya si sistemò in mezzo al "Palco" e fece un discorso prima in una lingua che non conoscevo - e che poi scoprii essere il dialetto giriama - e poi in inglese.
Disse che ringraziava tutti per essere lì, parlò brevemente dell'importanza di MADCA, spiegò che di lì a poco due amici italiani, Rossella e Ivo, sarebbero stati adottati dalla tribù per poi sposarsi a Bungale (applauso), e che il Sappe - che tutti conoscevano - aveva portato con sè un famoso musicista italiano, Ric Giambo, che ora, con la sua chitarra avrebbe cantato una canzone per loro (applauso).
Non ebbi il tempo di lanciare uno sguardo inceneritore a quello stronzo del Sappe che mi aveva giocato quel bruttissimo tiro.
Ora dovevo raccogliere tutte le energie per decidere che cavolo cantare accompagnato dalla mia chitarra e senza microfono, di fronte a quella nutrita ed eterogenea platea. Munyaya attese che lo raggiungessi, mi strinse la mano e mi lasciò da solo, di fronte a un centinaio di persone che, in silenzio tombale, attendeva la mia esibizione.
Un turbine di pensieri passò velocissimo nella mia mente.
Come compositore di musiche e non di parole non avevo nessuna canzone mia da proporre, in più, per mia pigrizia, erano pochi i brani dei quali ricordavo il testo completo, a parte "Fra Martino Campanaro" e "Tanti auguri a te" e qualche raro classico tra i canzonieri da spiaggia.
Figuriamoci dopo i fumi della Tusker Lager...
Passai in rassegna qualche pietra miliare, ma nessuna mi convinceva.
"Va pensiero?"
"Sono un italiano?"
"Nel blu dipinto di blu?"
«Tu come la vedi?» dissi a me stesso e mi morsi la lingua per quanto il Sappe mi avesse contagiato con quel tormentone e, alla fine ebbi un'illuminazione e tirai un sospiro di sollievo.
"Che sarà!"
Perfetta, sia per la musica col ritornello accattivante, sia per il testo quasi autobiografico e soprattutto perché la ricordavo tutta dall'inizio alla fine.
Mi venne anche in mente di aver letto che quel brano, sebbene interpretato dal portoricano José Feliciano oltre che dal gruppo dei Ricchi e Poveri, era stato scritto dagli italianissimi Migliacci, Fontana e Pes e quindi la bandiera italiana che rappresentavo poteva sventolare tranquilla.
E fu così che, iniziando ad accennare i primi accordi con la chitarra, decisi di spendere due parole in inglese a mo' di introduzione: «Signore e signori sarà un piacere per me cantare per voi una canzone che parla di un uomo molto triste perché vive in un paese che non può offrirgli un futuro. Per questo motivo egli decide di lasciare tutto ciò che ama: la sua famiglia, la donna che ama e gli amici, molti dei quali partiranno dopo di lui. Non sa cosa sarà di lui ma di una cosa è sicuro, che un giorno ritornerà, per baciare ancora il suo amore. Porta con sé la sua chitarra che suonerà quando si sentirà triste».
Dopo le mie parole Munyaya si alzò in piedi, tradusse in giriama ciò che avevo detto, poi mi sorrise e tornò a sedersi in mezzo a una platea che aveva bevuto le mie parole come acqua di fonte. Di esibizioni ne ho fatte tante nella mia vita ma un pubblico così attento non l'avevo mai avuto.
Cominciai a cantare la prima strofa e il primo ritornello. Al secondo ritornello tutti battevano le mani a tempo. Al terzo si erano alzati tutti in piedi e cantavano insieme a me "Che sarà, che sarà che saraaaaà". Al quarto ritornello erano partiti i tamburi, le donne lanciavano i loro acutissimi gorgheggi, tutti ballavano compresi Ivo, Rossella e il Sappe con la sua tipica espressione compiaciuta.
Un successone! Quando misi giù la chitarra, si formò una fila interminabile di gente che mi voleva stringere la mano, qualcuno mi abbracciò... giuro che un'emozione così non l'avevo provata da chissà quanto tempo.

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